MARCO
TULLIO CICERONE (Arpino,
3 gennaio 106 a.C. – Formia, 7 dicembre 43 a.C.)
Marco
Tullio Cicerone è stato un avvocato, politico, scrittore e oratore
romano.
Esponente
di un'agiata famiglia dell'ordine equestre, Cicerone fu una delle
figure più rilevanti di tutta l'antichità romana. La sua vastissima
produzione letteraria, che va dalle orazioni politiche agli scritti
di filosofia e retorica, oltre a offrire un prezioso ritratto della
società romana negli ultimi travagliati anni della repubblica,
rimase come esempio per tutti gli autori del I secolo a.C., tanto da
poter essere considerata il modello della letteratura latina
classica.
Attraverso
l'opera di Cicerone, grande ammiratore della cultura greca, i Romani
poterono anche acquisire una migliore conoscenza della filosofia. Tra
i suoi maggiori contributi alla cultura latina ci fu senza dubbio la
creazione di un lessico filosofico latino: Cicerone si impegnò,
infatti, a trovare il corrispondente vocabolo in latino per tutti i
termini specifici del linguaggio filosofico greco. Tra le opere
fondamentali per la comprensione del mondo latino si collocano invece
le Lettere (“Epistulae”,
in particolar modo quelle all'amico Tito Pomponio Attico), che
offrono numerosissime riflessioni su ogni avvenimento, permettendo di
comprendere quali fossero le reali linee politiche dell'aristocrazia
romana.
Cicerone
occupò per molti anni anche un ruolo di primaria importanza nel
mondo della politica romana: dopo aver salvato la repubblica dal
tentativo eversivo di Lucio Sergio Catilina ed aver così ottenuto
l'appellativo di “pater
patriae”
(padre della patria), ricoprì un ruolo di primissima importanza
all'interno della fazione degli “Optimates”.
Fu infatti Cicerone che, negli anni delle guerre civili, difese
strenuamente fino alla morte una repubblica giunta ormai all'ultimo
respiro e destinata a trasformarsi nel “principatus”
augusteo.
BIOGRAFIA:
- L'infanzia e la famiglia:
Marco
Tullio Cicerone nacque il 3 gennaio del 106 a.C. in località Ponte
Olmo, in prossimità della confluenza del fiume Fibreno nel Liri,
nell'area attualmente occupata dall'Abbazia di San Domenico, oggi nel
territorio di Sora ma all'epoca nel comune di “Arpinum”,
antica città di collina fondata dai Volsci 100 chilometri a sud-est
di Roma. Gli Arpinati avevano ricevuto la civitas
sine suffragio
già nel IV secolo a.C., e i pieni diritti di cittadinanza nel 188
a.C.; in seguito la città aveva ottenuto anche lo status di
municipium.
La lingua latina vi era in uso già da lungo tempo. Ad Arpino,
tuttavia, era diffuso anche l'insegnamento della lingua greca, che
l'élite senatoriale romana preferiva spesso a quella latina,
riconoscendone la maggiore raffinatezza e precisione. L'assimilazione
da parte dei Romani delle comunità italiche nelle vicinanze di Roma,
avvenuta tra il II ed il I secolo a.C., rese possibile il futuro di
Cicerone come scrittore, statista ed oratore.
Cicerone
apparteneva alla classe equestre, la piccola nobiltà locale, e,
anche se lontanamente imparentato con Gaio Mario, il leader dei
“Populares”
durante la guerra civile contro gli “Optimates”
di Lucio Cornelio Silla, non aveva alcun legame con l'oligarchia
senatoriale romana; era dunque un “homo
novus”.
La famiglia era composta dal padre Marco Tullio Cicerone il Vecchio,
uomo colto ma di origine sconosciuta, dalla madre Elvia, di nobile
casato e integri costumi, e dal fratello Quinto.
Il
cognomen
Cicero era il soprannome di un suo antenato abbastanza noto, che
aveva un'escrescenza carnosa sul naso (presumibilmente una verruca),
che ricordava nella forma un cece (“cicer,
ciceris”
è il termine latino per cece). Quando Marco presentò per la prima
volta la sua candidatura ad un ufficio pubblico, alcuni amici gli
sconsigliarono l'utilizzo del suo cognomen,
ma lui rispose che «avrebbe fatto sì che esso diventasse più noto
di quello degli Scauri e dei Catuli.»
- Gli studi:
Cicerone
si rivelò subito un fanciullo dotato di straordinaria intelligenza,
distinguendosi tra i suoi coetanei a scuola e accumulando fama e
onore. Il padre, auspicando per i figli una brillante carriera
forense e politica, li condusse a Roma dove Marco venne introdotto
nel circolo dei migliori oratori del suo tempo, protettori della sua
famiglia, Lucio Licinio Crasso e Marco Antonio. Particolare influenza
ebbe il primo su Cicerone, per cui rimase sempre modello di oratore e
di statista. A Roma Cicerone poté anche formarsi nella
giurisprudenza, grazie alla scuola di Quinto Mucio Scevola, eminente
giurista. Tra i compagni di Cicerone c'erano Gaio Mario il giovane,
Servio Sulpicio Rufo (destinato a divenire un celebre avvocato, uno
dei pochi che Cicerone considerò superiori a se stesso), e Tito
Pomponio, che prese poi il cognomen
di Attico dopo una lunga permanenza ad Atene, e che divenne intimo
amico di Cicerone. In una lettera, infatti, gli scrisse: «Sei per me
come un secondo fratello, un alter ego al quale posso dire ogni
cosa».
In
questo periodo Cicerone si avvicinò anche alla poesia cimentandosi
nella traduzione di Omero e dei Fenomeni di Arato, che influenzarono,
più tardi, le Georgiche di Virgilio.
Particolarmente
attratto dalla filosofia, alla quale avrebbe dato grandi contributi,
tra i quali la creazione del primo vocabolario filosofico in lingua
latina, nel 91 a.C. incontrò, assieme all'amico Tito Pomponio
(Attico), il filosofo epicureo Fedro in visita a Roma. I due ne
furono affascinati, ma solo Attico rimase per tutta la vita seguace
della dottrina epicurea. Tra il 79 e il 77 conobbe il maestro di
retorica Apollonio Molone (che istruì, pochi anni dopo, anche Gaio
Giulio Cesare), e l'accademico Filone di Larissa, che esercitò in
lui un'influenza profonda. Questi era infatti a capo dell'Accademia
che Platone aveva fondato ad Atene circa trecento anni prima e
Cicerone, grazie alla sua influenza, assimilò la filosofia platonica
- pur rigettando, ad esempio, la teoria delle idee - arrivando spesso
a definire Platone come il suo dio.
Poco
tempo dopo, Cicerone incontrò Diodoto, esponente dello stoicismo. Lo
stoicismo era già stato precedentemente introdotto a Roma, dove
aveva ricevuto larghi consensi grazie all'enfasi posta sul controllo
delle emozioni e sulla forza di volontà, che sposava gli ideali
romani. Cicerone non adottò completamente l'austera filosofia
stoica, ma preferì uno stoicismo modificato. Diodoto divenne poi un
protetto di Cicerone, dal quale fu ospitato fino alla morte. Il
filosofo, dimostrando la sua piena adozione dello stoicismo, continuò
ad insegnare anche dopo la perdita della vista.
- Cursus honorum:
- Prime esperienze:
Il
sogno di infanzia di Marco Tullio Cicerone era quello di "essere
sempre il migliore ed eccellere sugli altri", in linea con gli
ideali omerici. Cicerone desiderava dignitas
ed auctoritas,
simboleggiati dalla toga pretesta e dalla verga dei littori. C'era un
solo modo per ottenerli: percorrere i gradini del cursus honorum. Nel
90 a.C., tuttavia, Cicerone era troppo giovane per approdare a
qualsiasi carica del cursus honorum, ma non per acquisire
l'esperienza preliminare in guerra che una carriera politica
richiedeva. Tra il 90 a.C. e l'88 a.C., Cicerone servì sotto Gneo
Pompeo Strabone e Lucio Cornelio Silla durante le campagne della
Guerra sociale, sebbene lui non provasse alcuna attrazione per la
vita militare. Era prima di tutto un intellettuale. Infatti, molti
anni dopo scrisse al suo amico Attico, che stava raccogliendo statue
marmoree per le ville di Cicerone: "Perché mi spedisci una
statua di Marte? Sai che io sono un pacifista!"
L'ingresso
di Cicerone nella carriera forense avvenne ufficialmente nell'81 a.C.
con la sua prima orazione pubblica, la “Pro
Quinctio”,
per una causa in cui ebbe come avversario il più celebre oratore del
tempo, Quinto Ortensio Ortalo. Ma il suo vero esordio nell'oratoria a
carattere politico, almeno secondo le testimonianze scritte a noi
disponibili, si ebbe con la “Pro
Roscio Amerino”,
molto concitata ed a tratti enfatica, che conserva molto di
scolastico nello stile esuberante. Qui Cicerone difese con successo
un figlio ingiustamente accusato di parricidio, dimostrando grande
coraggio nell'assumersene la difesa: il parricidio era considerato
tra i crimini peggiori, e i veri colpevoli dell'omicidio erano
sostenuti dal liberto di Silla, Lucio Cornelio Crisogono. Se Silla
avesse voluto, sarebbe stato fin troppo facile eliminare Cicerone,
proprio alla sua prima apparizione nei tribunali.
Cicerone
divise le sue argomentazioni in tre parti: nella prima, difese Roscio
e tentò di provare che non era stato lui a commettere l'assassinio;
nella seconda, attaccò quelli che avevano realmente commesso il
crimine - tra cui anche un parente dello stesso Roscio - e dimostrò
come l'assassinio favoriva più quelli che Roscio; nella terza,
attaccò direttamente Crisogono, affermando che il padre di Roscio
era stato assassinato per ottenere i suoi terreni ad un prezzo
conveniente, una volta messi all'asta. In forza di queste
argomentazioni, Roscio fu assolto.
Per
sfuggire ad una probabile vendetta di Silla, tra il 79 ed il 77 a.C.
Cicerone si recò, accompagnato dal fratello Quinto, dal cugino Lucio
e probabilmente anche dall'amico Servio Sulpicio Rufo, in Grecia ed
in Asia Minore. Particolarmente significativa fu la sua permanenza ad
Atene. Qui incontrò nuovamente l'amico Attico che, fuggito da
un'Italia sconvolta dalle guerre, si era rifugiato in Grecia. Egli
era poi diventato cittadino onorario di Atene e poté presentare a
Cicerone alcune tra le più importanti personalità ateniesi del
tempo. Ad Atene, inoltre, Cicerone visitò quelli che erano i luoghi
sacri della filosofia, a cominciare dall'Accademia di Platone, di cui
era allora capo Antioco di Ascalona. Di quest'ultimo Cicerone ammirò
la facilità di parola, senza tuttavia condividerne le idee
filosofiche, ben differenti da quelle di Filone, delle quali era
convinto ammiratore. Dopo un breve soggiorno a Rodi, dove conobbe lo
stoico Posidonio, Cicerone tornò in Grecia, dove fu iniziato ai
misteri eleusini, che lo impressionarono molto, e dove poté visitare
l'Oracolo di Delfi. Qui domandò alla Pizia in quale modo avrebbe
potuto raggiungere la gloria, ed ella gli rispose che avrebbe dovuto
seguire il suo istinto, e non i suggerimenti che riceveva.
- Ingresso in politica:
Tornato
a Roma dopo la morte di Silla (avvenuta nel 78 a.C.), Cicerone diede
inizio alla sua vera e propria carriera politica, in un ambiente
sostanzialmente favorevole: nel 76 a.C. si presentò come candidato
alla questura, la prima magistratura del “cursus
honorum”.
I questori, eletti in numero di venti, si occupavano della gestione
finanziaria, o assistevano propretori e proconsoli nel governo delle
province. Eletto alla carica per la città di Lilibeo (l'odierna
Marsala), nella Sicilia Occidentale, svolse il lavoro con scrupolo ed
onestà tanto da guadagnarsi la fiducia degli abitanti del luogo.
Durante la sua permanenza in Sicilia visitò, a Siracusa, la tomba di
Archimede. Grazie all'interesse di Cicerone per lo scienziato
siracusano sono in nostro possesso alcune importanti informazioni su
di lui e in particolare la migliore testimonianza sul suo planetario.
Al termine del mandato, i Siciliani gli affidarono la causa contro il
propretore Verre, reo di aver tiranneggiato l'isola nel triennio
73-71 a.C. Cicerone raccolse con zelo le prove della colpevolezza,
pronunciò due orazioni preliminari (“Divinatio
in Quintum Caecilium”
e “Actio
prima in Verrem”)
e l'ex governatore, oberato da prove schiaccianti, scelse l'esilio
volontario. Le cinque orazioni preparate per le successive fasi del
processo (che costituiscono l’Actio
secunda)
furono pubblicate più tardi e costituiscono un'importante prova del
malgoverno che l'oligarchia senatoria esercitava a seguito delle
riforme sillane. Attaccando Verre, Cicerone attaccò la prepotenza
della nobiltà corrotta, ma non l'istituzione senatoria, anzi fece
proprio appello alla dignità di tale ordine perché estromettesse i
membri indegni. Acquisì, inoltre, un enorme prestigio perché a
difendere Verre era Quinto Ortensio Ortalo, considerato il più
grande avvocato dell'epoca: "sconfitto", Ortensio dovette
accettare che il suo posto venisse preso da Cicerone. Nonostante
l'episodio, i due strinsero poi un buon legame di amicizia. Ad
Ortensio, anzi, che elogiò anche nel Brutus,
Cicerone dedicò un'intera opera, non pervenutaci, l'Hortensius.
L'oratoria
e l'attività forense erano, a Roma, uno dei principali mezzi di
propaganda per i politici emergenti, in quanto non esistevano
documenti scritti di argomento politico, ad eccezione degli Acta
Diurna, che godevano di scarsa diffusione.
Contro
Cicerone, però, rimaneva la naturale diffidenza dei nobili verso chi
era un “homo novus”, accresciuta dal fatto che l'ultimo “homo
novus” ad acquisire rilevante peso politico era stato il
concittadino dello stesso Cicerone, Gaio Mario. Anche lo stesso
Silla, tuttavia, fiero oppositore di Mario, aveva preso alcuni
provvedimenti che permettevano e facilitavano l'ingresso degli
equites
alla vita politica, dando così a Cicerone la possibilità di
raggiungere le vette del cursus honorum.
Il
successo ottenuto da quelle orazioni (che vennero poi chiamate
Verrine),
anticipatrici dei principi di un governo umano ed ispirato ad onestà
e filantropia, portò Cicerone in primo piano sulla scena politica:
nel 69 a.C. venne eletto alla carica di edile curule (all'età di 37
anni), nel 66 a.C. diventò pretore con una elezione all'unanimità
(a 40 anni). Nello stesso anno pronunciò il suo primo discorso
politico, Pro
lege Manilia de imperio Cn. Pompei,
in favore del conferimento dei pieni poteri a Pompeo per la guerra
mitridatica. In questa occasione Pompeo era appoggiato dai cavalieri,
interessati alla rapida risoluzione della guerra in Asia, mentre gli
era contraria la maggioranza del senato. Il motivo dell'impegno di
Cicerone in una causa ostile all'alta aristocrazia (che d'altronde
era restìa ad accoglierlo tra le proprie file) sta nell'importanza
che essa aveva per i pubblicani e gli affaristi, minacciati nei loro
interessi da Mitridate VI. La provincia dell'Asia Minore, minacciata
dal sovrano del Ponto, era, infatti, particolarmente attiva dal punto
di vista dell'economia e del commercio.
- Consolato:
Nel
65 a.C. Cicerone presentò la candidatura al consolato.
Nel
64 venne eletto console per l'anno successivo (ossia il 63 a.C.).
La
sua posizione venne illustrata dal fratello Quinto in un'opera (di
dubbia attribuzione: la scrisse lo stesso Cicerone?), Commentariolum
petitionis,
scritta per consigliarlo nella campagna elettorale. Per un gioco
delle classi, Cicerone risultò eletto con il voto di tutte le
centurie. Assieme a lui risultò eletto il patrizio Gaio Antonio
Ibrida, zio di Marco Antonio, futuro triumviro e acerrimo nemico
dell'arpinate, accusato dallo stesso Cicerone (In toga candida,
orazione - pervenutaci in condizioni frammentarie - tenuta in senato
come candidato poco prima delle elezioni del 64) di essere collusore
di Lucio Sergio Catilina. La fiducia riposta in Cicerone dalla classe
equestre venne ripagata già all'inizio del consolato con la
pronuncia di quattro orazioni (De
lege agraria)
contro la proposta di redistribuzione delle terre del tribuno Publio
Servilio Rullo.
Durante
il proprio consolato Cicerone dovette contrastare il tentativo di
congiura messo in atto da Catilina. Questi era un nobile impoverito
che, dopo aver combattuto insieme a Silla e aver completato il cursus
honorum, aspirava a diventare console. Catilina si candidò a console
tre volte e tre volte venne fermato con processi dubbi o con
probabili brogli elettorali e infine ordì una congiura per
rovesciare la repubblica. Catilina contava soprattutto sull'appoggio
della plebe, a cui prometteva radicali riforme, e sugli altri nobili
decaduti, ai quali prospettava un vantaggioso sovvertimento
dell'ordine costituito, che lo avrebbe probabilmente portato ad
assumere un potere monarchico o quasi. Venuto a conoscenza del
pericolo che la Repubblica correva grazie alla soffiata di Fulvia,
amante del congiurato Quinto Curio, Cicerone fece promulgare dal
senato un senatus
consultum ultimum de re publica defendenda,
cioè un provvedimento con cui si attribuivano, come era previsto in
situazioni di particolare gravità, poteri speciali ai consoli.
Sfuggito poi ad un attentato da parte dei congiurati, Cicerone
convocò il senato nel tempio di Giove Statore, dove pronunciò una
violenta accusa a Catilina, con il discorso noto come Prima
Catilinaria,
che si apre con il celebre incipit
Latino:
«Quousque tandem abutere, Catilina, patientia nostra?»
Italiano:
«Fino a quando, Catilina, abuserai della nostra pazienza?»
Grazie
alla collaborazione con una delegazione di ambasciatori inviati a
Roma dai Galli Allobrogi, Cicerone poté però trascinare anche
Lentulo e Cetego davanti al senato: gli ambasciatori, incontratisi
con i congiurati, che avevano dato loro documenti scritti in cui
promettevano grandi benefici se avessero appoggiato Catilina, furono
arrestati in modo del tutto fittizio, e i documenti caddero nelle
mani di Cicerone. Questi portò Cetego, Lentulo e gli altri davanti
al senato, ma nel decidere quale pena dovesse essere applicata, si
scatenò un acceso dibattito: dopo che molti avevano sostenuto la
pena capitale, Gaio Giulio Cesare propose di punire i congiurati con
il confino e la confisca dei beni. Il discorso di Cesare provocò
scalpore, ed avrebbe probabilmente convinto i senatori se Marco
Porcio Catone Uticense non avesse pronunciato un altrettanto acceso
discorso in favore della pena di morte. I congiurati furono quindi
giustiziati, e Cicerone annunziò la loro morte al popolo con la
formula:
Latino:
«Vixerunt»
Italiano:
«Vissero»
Poiché
era considerato di cattivo auspicio pronunciare la parola "morte"
(ed espressioni di significato affine come "sono morti")
nel foro.
Catilina
fu poi sconfitto, nel gennaio 62, in battaglia assieme al suo
esercito.
Cicerone,
che non smise mai di vantare il proprio ruolo determinante per la
salvezza dello stato (si ricordi il famoso verso di Cicerone sul suo
consolato: Cedant arma togae, trad: "che le armi lascino il
posto alla toga [del magistrato]"), grazie al ruolo svolto nel
reprimere la congiura, ottenne un prestigio incredibile, che gli
valse addirittura l'appellativo di “pater patriae”. Nonostante
ciò, la scelta di autorizzare la condanna a morte dei congiurati
senza concedere loro la provocatio
ad populum
(ovvero l'appello al popolo, che poteva decretare la commutazione
della pena capitale in una pena detentiva) gli sarebbe costata cara
soltanto pochi anni dopo.
- Durante la guerra civile: dal primo triumvirato alle Idi di Marzo
A
seguito del riemergere dei contrasti tra senatori e pubblicani, e
dell'accordo tra Cesare e Pompeo ai danni dell'oligarchia senatoria,
Cicerone scivolò da parte. L'ultima possibilità di rientrare nel
gioco politico gli fu offerta nel 60 a.C. dai tre più potenti uomini
del momento, ovvero Pompeo, Cesare e Crasso, alla conclusione
dell'accordo per il primo triumvirato: essi chiesero a Cicerone di
appoggiare la legge agraria a favore dei veterani di Pompeo e della
plebe meno abbiente. Cicerone, tuttavia, rifiutò non solo per non
apparire un traditore dell'aristocrazia, ma anche per l'attaccamento
all'ordine legale e sociale di cui gli ottimati si proclamavano
difensori.
Dopo
questo rifiuto e la costituzione del primo triumvirato, Cicerone si
tenne fuori dalla politica ma ciò non bastò a salvarlo dalle
vendette dei “populares”:
all'inizio del 58 a.C. il tribuno della plebe Clodio Pulcro, nemico
di Cicerone per un precedente processo per sacrilegio, fece approvare
una legge con valore retroattivo che condannava all'esilio chiunque
avesse mandato a morte un cittadino romano senza concedergli la
provocatio
ad populum.
Si trattava, in realtà, di un'abilissima mossa politica di Cesare
(che per l'appunto prima di partire per la Gallia attese che Cicerone
fosse fuggito da Roma) che, attraverso il suo alleato Clodio,
eliminava così dalla scena politica uno dei suoi avversari più
tenaci, che avrebbero potuto osteggiarlo durante la sua ascesa al
potere. Cicerone fu dunque processato per la sua condotta durante il
processo ai Catilinari Lentulo e Cetego ma, costretto all'esilio, non
si diede pace, implorando le sue conoscenze perché favorissero il
suo ritorno. Clodio, però, fece approvare anche una serie di altre
leggi che prevedevano che Cicerone non si potesse neppure avvicinare
al confine dell'Italia, e che le sue proprietà venissero confiscate.
In realtà la villa sul Colle Palatino fu addirittura distrutta, ed
una sorte simile toccò poco dopo a quelle di Formia e di Tusculum.
Nel 57 a.C. la situazione a Roma migliorò, allorché i nobili e
Pompeo posero un freno alle iniziative di Clodio Pulcro, permettendo
a Cicerone di tornare e ricominciare la sua lotta contro il tribuno
della plebe.
Nel
56 a.C. Cicerone pronunciò l'orazione Pro
Sestio
in cui allargava il suo precedente ideale politico: l'alleanza tra
cavalieri e senatori a suo avviso non era più sufficiente per
stabilizzare la situazione politica. Occorreva, quindi, un fronte
comune di tutti i possidenti per opporsi alla sovversione tentata dai
“populares”.
Possidenti e plebe si scontravano con l'uso di bande armate, e in uno
di questi scontri, più precisamente sulla via Appia, Milone,
organizzatore delle bande dei possidenti, uccise il tribuno Clodio.
Al processo per omicidio, tenutosi nel 52 a.C., Cicerone difese
Milone, ma, non riuscendo a pronunciare il suo discorso con la giusta
forza per il clamore della folla e per il timore che gli incutevano i
partigiani di Clodio nel foro, Milone venne condannato all'esilio
(una versione della Pro
Milone
venne pubblicata solo successivamente, dando modo di verificare come
fosse un'orazione tra le più abili e sottili sul piano giuridico).
Il
mondo romano allo scoppio della guerra civile (1 gennaio 49 a.C.).
Sono inoltre evidenziate le legioni distribuite per provincia
Dopo
essere stato nominato augure nel 53 a.C. al posto di Crasso, nel 51
a.C. come proconsole si recò in Cilicia, proprio mentre i rapporti
tra Cesare e Pompeo si inasprivano. Durante il soggiorno lontano da
Roma, i pensieri dell'oratore furono rivolti alla minaccia della
guerra civile. Tornato in patria, non cessò di invitare le parti
alla moderazione ed alla conciliazione, ma i suoi inviti caddero nel
vuoto anche a causa del fanatismo che spingeva Pompeo
all'intransigenza nei confronti delle richieste di Cesare. Quando
Cesare varcò il Rubicone, Cicerone cercò di accattivarsene il
favore, ma poi decise ugualmente di lasciare l'Italia per unirsi a
Pompeo. Sbarcò, dunque, a Dyrrachium,
ma, raggiunti i Pompeiani, si accorse di quanto le speranze che egli
riponeva in loro quali salvatori della repubblica fossero infondate:
ognuno di loro era lì non in difesa degli ideali, ma soltanto per
tentare di trarre profitto dalla guerra. Dopo la grande vittoria di
Cesare nella battaglia di Farsalo, nel 48 a.C., Cicerone decise di
tornare a Roma, dove ottenne il perdono dello stesso Cesare nel 47
a.C.
Cicerone
rivelava nelle sue opere ed in lettere ad amici come Cornelio Nepote,
riguardo alla personalità di Cesare:
«Non
vedo a chi Cesare debba cedere il passo. Ha un modo di esporre
elegante, brillante ed anche, in un certo modo si pronuncia in modo
elegante e splendido... Chi gli vorresti anteporre, anche tra gli
oratori di professione? Chi è più acuto o ricco nei concetti? Chi
più ornato o elegante nell'esposizione?» (Svetonio, Vite dei
Cesari, Cesare, 55.)
La
speranza di Cicerone di collaborare al governo di Cesare venne
troncata dalla piega assolutistica e monarchica presa dal potere.
L'oratore si ritirò, iniziando la stesura di opere di carattere
filosofico ed oratorio. A questo si aggiunse il divorzio dalla moglie
Terenzia e la morte della figlia Tullia, seguita dalla separazione
dalla seconda moglie Publilia, una giovinetta.
Quando
Cesare fu ucciso, il 15 marzo del 44 a.C., a seguito della congiura
ordita da Marco Giunio Bruto e Gaio Cassio Longino, per Roma, e per
lo stesso Cicerone, si avviò una nuova fase politica, che avrebbe
avuto termine solo con l'avvento dell'impero.
- L'opposizione ad Antonio e la morte:
Cicerone
non fu, certamente, colto di sorpresa dall'assassinio, da parte dei
“Liberatores”,
di Giulio Cesare: era sicuramente al corrente della congiura che si
andava tessendo, ma decise sempre di tenersene al di fuori, pur
manifestando una grande ammirazione per l'uomo che era destinato a
divenire il simbolo stesso della congiura, Bruto. E lo stesso Bruto,
infatti, con il pugnale sporco del sangue di Cesare ancora in mano,
additò Cicerone definendolo l'uomo che avrebbe ristabilito l'ordine
nella repubblica.
Scrisse
a Lucio Minucio Basilo, uno dei cesaricidi, una lettera per
congratularsi dell'assassinio di Cesare:
Latino:
«Tibi gratulor, mihi gaudeo; te amo, tua tueor; a te amari et, quid
agas quidque agatur, certior fieri volo.»
Italiano:
«Con te mi congratulo, per me sono contento; ti sono vicino, ho cura
delle tue cose; ti chiedo di volermi bene e di farmi sapere che cosa
fai e che cosa succede.»
(Cicerone,
Ad Familiares, vi, 15)
La
data della missiva non è conosciuta, ma viene solitamente ritenuta
vicinissima o coincidente alla congiura. L'espressione « quid agas
quidque agatur » la indicherebbe come scritta prima che Cicerone si
recasse al Campidoglio, dove i cospiratori avevano trovato rifugio
dopo l'assassinio, asserragliati nel tempio capitolino e protetti dai
gladiatori di Bruto.
Cicerone,
infatti, tornò ad essere anche di fatto uno dei maggiori leader
della fazione degli “optimates”,
mentre Marco Antonio, luogotenente e “magister
equitum”
di Cesare, prendeva le redini della fazione dei “populares”.
Antonio tentò di fare in modo che il senato decidesse di organizzare
una spedizione contro i “Liberatores”
(che intanto si erano trasferiti nella penisola balcanica), ma
Cicerone fu promotore di un accordo che, assicurando il
riconoscimento di tutti i provvedimenti presi da Cesare nel corso
della sua dittatura, garantiva l'impunità a Bruto e Cassio. Poco
dopo, i due, assieme agli altri congiurati, fuggirono verso la
penisola ellenica.
Tra
Cicerone ed Antonio, comunque, i rapporti non erano dei migliori, e i
due, d'altra parte, si trovavano all'esatto opposto in ambito
politico: Cicerone era il difensore degli interessi dell'oligarchia
senatoriale, convinto sostenitore della repubblica, mentre Antonio
avrebbe voluto fare suoi i progetti di Cesare ed assumere
gradualmente un potere monocratico ed incostituzionale. Intanto,
un'altra figura si andava affermando dal nulla nel panorama politico
di Roma, la figura del giovane Ottaviano (destinato a diventare
Augusto), pronipote di Cesare e suo erede designato nel testamento.
Ottaviano decise di adottare una politica filosenatoriale, senza
mostrare nessuna volontà di imitare le mosse di Cesare.
Cicerone,
allora, si schierò ancora più apertamente contro Antonio, definendo
Ottaviano come vero erede politico di Cesare, e come uomo mandato
dagli dèi per ristabilire l'ordine. Cicerone sperava, infatti,
nell'affermazione di un giovane “princeps
in re publica”
che, assistito da un membro del senato di grande esperienza, come lo
stesso Cicerone, riportasse la pace e riformasse la repubblica.
Iniziò, inoltre, tra il 44 a.C. e il 43 a.C., a pronunciare contro
Antonio una serie di orazioni, note con il nome di Filippiche
in quanto richiamavano quelle omonime pronunciate da Demostene contro
Filippo II di Macedonia. Intanto, Antonio, nella volontà di condurre
una nuova guerra in Gallia per accrescere il proprio prestigio,
decise di marciare contro Decimo Giunio Bruto Albino, governatore
della Gallia Cisalpina, e lo assediò nella città di Modena. Qui
Antonio fu però raggiunto dagli eserciti consolari guidati da Aulo
Irzio, Gaio Vibio Pansa e dallo stesso Ottaviano, che lo sconfissero.
Tornato
a Roma, Ottaviano si trovò nella situazione di dover scegliere tra
il totale abbandono della politica cesariana, che avrebbe tenuto in
vita l'agonizzante repubblica, e l'allontanamento dal senato, al
quale rischiava di asservirsi totalmente. Scelse di proseguire almeno
in parte la politica cesariana, e costituì, assieme ad Antonio e a
Marco Emilio Lepido, il secondo triumvirato, un accordo politico
secondo il quale i tre uomini avrebbero dovuto compiere una profonda
opera di riforma della repubblica. Cicerone fu costretto ad accettare
che sarebbe ora stato impossibile attuare il suo piano di un
“princeps”,
ma non per questo ritirò le severe accuse rivolte ad Antonio nelle
Filippiche. Quest'ultimo, allora, nonostante l'opposizione di
Ottaviano, decise di inserire Cicerone nelle liste di proscrizione,
decretando, così, la sua condanna a morte.
Cicerone
lasciò allora Roma e si ritirò nella sua villa di Formia, che aveva
ricostruito dopo gli episodi legati a Clodio. A Formia, però, fu
raggiunto da alcuni sicari inviati da Antonio, che, aiutati da un
liberto di nome Filologo, poterono trovarlo fin troppo facilmente.
Cicerone, accortosi dell'arrivo dei suoi assassini, non tentò di
difendersi, ma si rassegnò alla sua sorte, e venne decapitato. Tale
località prese il nome di Vindicio (dal latino "vindicta",
vendetta), attuale frazione di Formia. Una volta ucciso, per ordine
di Antonio, gli furono tagliate anche le mani (o forse soltanto la
mano destra, usata per scrivere ed indicare durante i discorsi), con
cui aveva scritto le Filippiche, che furono esposte in senato insieme
alla testa, appese ai rostri che si trovavano sopra la tribuna da cui
i senatori tenevano le loro orazioni, come monito per gli oppositori
del triumvirato.
Una
volta sconfitto Antonio, Ottaviano scelse Marco, figlio di Cicerone,
come collega per il consolato, e proprio Marco comminò le pene di
Antonio, facendone abbattere le statue e decretando che nessun membro
della gens Antonia avrebbe più potuto essere chiamato Marco.
Plutarco
racconta che quando, tempo dopo, insignito del titolo di Augusto,
Ottaviano trovò un nipote che leggeva le opere di Cicerone, gli
prese il libro, e ne lesse una parte. Una volta che glielo ebbe
restituito, disse: "Era un saggio, ragazzo mio, un saggio, e
amava la patria".
- Vita privata:
- Matrimoni:
Cicerone
probabilmente sposò Terenzia all'età di 29 anni, nel 77 a.C. Il
matrimonio - di convenienza - fu piuttosto armonioso per 30 anni.
Terenzia era di famiglia patrizia ed era una ricca ereditiera,
entrambi fattori particolarmente importanti per il giovane ambizioso
che Cicerone era in quel momento. Da Terenzia Cicerone avrà due
figli: il primo Marco Tullio Cicerone, che come il padre diventerà
un politico a Roma, la seconda Tullia o «la dolce Tulliola», come
appunto viene descritta da Cicerone in una delle sue innumerevoli
lettere; ella si sposò prima con un Pisone Frugi e poi in seconde
nozze con Publio Cornelio Dolabella dal quale divorzierà perché il
padre sosteneva la fazione degli ottimati mentre Dolabella era
luogotenente di Cesare, infine morirà molto giovane all'età di 34
anni. Una delle sorelle o cugina di Terenzia era stata scelta come
vergine Vestale, il che costituiva un grandissimo onore. Terenzia era
una donna dal carattere forte e prese parte alla carriera politica di
suo marito più di quanto permise a lui di prenderne negli affari di
famiglia. Non condivise, tuttavia, gli interessi intellettuali di
Cicerone né il suo agnosticismo. Cicerone lamenta a Terenzia in una
lettera scritta durante il suo esilio in Grecia che «...né gli dei
che Lei ha adorato con tale devozione né gli uomini che io ho
servito hanno mostrato il più piccolo segno di gratitudine nei
nostri confronti». Terenzia era una donna devota e probabilmente
piuttosto materialista.
Alla
fine del 47 a.C. o all'inizio del 46 a.C. Cicerone ripudiò Terenzia.
I motivi del distacco sono ignoti, ma Cicerone accusò la moglie di
averlo trascurato durante la guerra, di non essere neppure venuta ad
accoglierlo al suo ritorno e di avergli restituito la casa gravata di
forti debiti.
Verso
la fine del 46 a.C. Cicerone sposò Publilia, giovane e ricca
fanciulla orfana di padre, che viveva sola con la madre. Secondo
Terenzia (che accusava Publilia di essere la causa del suo divorzio),
la giovinezza della fanciulla avrebbe causato l'innamoramento di
Cicerone, mentre secondo Tirone, liberto dell'oratore, dietro la
decisione ci sarebbe stato il desiderio di usufruire dei beni della
giovane; Cicerone peraltro era già stato nominato tutore di
Publilia, e ne amministrava le ricchezze. Poco dopo il matrimonio,
Tullia, figlia di Cicerone, morì di parto. Egli rimase fortemente
colpito e nel luglio del 45 a.C., mentre gli amici gli recavano
conforto, decise di ripudiare Publilia colpevole di essersi
rallegrata della morte di Tullia, dopo soli sette mesi di matrimonio.
Il
divorzio dalla storica consorte Terenzia e le seconde nozze con
Publilia, destinate anch'esse alla rottura, resero Cicerone oggetto
di feroci critiche, come quelle rivoltegli da Antonio nelle repliche
alle Filippiche.
- Prole:
È
universalmente noto l'amore di Cicerone per la figlia Tùllia,
sebbene il matrimonio con Terenzia, da cui lei era nata, fosse stato
un matrimonio di convenienza. Tullia era l'unica persona che Cicerone
non criticò mai. La descrive così in una lettera al fratello
Quinto: «Com'è affettuosa, com'è modesta, com'è intelligente!»
Quando lei si ammalò improvvisamente nel febbraio del 45 a.C. e
morì, dopo che era sembrato che potesse guarire, dando alla luce un
figlio, Cicerone scrisse ad Attico: «Ho perso l'unica cosa che mi
legava alla vita».
Attico
invitò Cicerone ad andarlo a trovare nelle prime settimane dopo la
morte di Tullia per poterlo consolare. Nella grande biblioteca di
Attico, Cicerone lesse tutto quello che i filosofi greci avevano
scritto circa il superamento del dolore, «...ma il mio dolore
sconfigge ogni consolazione». Cesare e Bruto gli spedirono lettere
di condoglianze, e così fece anche il suo vecchio amico e collega,
l'avvocato Servio Sulpicio Rufo. Questi spedì una lettera che in
seguito è stata molto apprezzata, piena di riflessioni sulla
fugacità di tutte le cose.
Dopo
un po', Cicerone decise di abbandonare ogni compagnia per ritirarsi
in solitudine nella sua villa di Astura, appena acquistata. Si
trovava in un bosco solitario, ma non lontano da Napoli, e per molti
mesi non fece altro che camminare per il bosco, piangendo. Scrisse ad
Attico: «Io mi immergo là nel bosco selvatico e fitto la mattina
presto, e vi soggiorno fino a sera». Più tardi decise di scrivere
un libro per insegnare a se stesso come superare il dolore; questo
libro, intitolato Consolatio,
fu estremamente apprezzato in antichità (in particolare da
Sant'Agostino), ma sfortunatamente è andato perduto, e ne restano
solo pochi frammenti. In seguito Cicerone progettò anche di far
erigere un piccolo tempio alla memoria di Tullia, la "sua
incomparabile" figlia, ma poi non portò a termine il progetto,
per ragioni ignote.
Cicerone
sperava che il figlio Marco scegliesse di diventare filosofo come
lui, ma era un'aspettativa fin troppo rosea: Marco, per conto suo,
desiderava intraprendere la carriera militare, e nel 49 a.C. si unì
a Pompeo ed al suo esercito, e partì con loro per la penisola
ellenica. Quando nel 48 a.C., dopo la disastrosa sconfitta dei
pompeiani a Farsalo, Marco si presentò a Cesare, questi lo perdonò.
Cicerone, allora, non perse tempo, e lo mandò ad Atene a formarsi
nella scuola del filosofo peripatetico Cratippo, ma Marco, ben
distante dall'occhio vigile del padre, passò il tempo a mangiare,
bere e divertirsi, seguendo le lezioni del retore Gorgia.
Dopo
l'assassinio del padre, Marco si unì all'esercito dei “Liberatores”,
guidati da Marco Giunio Bruto e Gaio Cassio Longino, ma in seguito
alla battaglia di Filippi, nel 42 a.C., fu perdonato da Augusto.
Questi, infatti, sentendosi in colpa per aver permesso che Cicerone
fosse inserito nelle liste di proscrizione del secondo triumvirato
decise di favorire la carriera del giovane Marco. Quest'ultimo
divenne, dunque, augure, e fu poi nominato prima console nel 30 a.C.
assieme allo stesso Augusto, e poi proconsole in Siria e nella
provincia d'Asia.
- Cicerone politico:
Come
politico, Cicerone è sempre stato bersaglio della critica di antichi
e moderni. Le accuse mossegli vanno dall'incoerenza alla vanità,
alla poca lungimiranza. Ma la sua conduzione oggettivamente può
essere giustificata se la si contestualizza nella politica del tempo,
fatta in un mobile gioco di accordi e conflitti tra gruppi di potere
e famiglie nobili, che sfruttavano le etichette di partito per mire
personali.
«Cicerone
era attaccato al governo repubblicano per tradizione e per ricordo,
rammentando le grandi cose che esso aveva fatto e a cui egli, come
molte altre persone, doveva le sue dignità, il suo grado sociale e
il nome. Non poteva dunque pensare a rassegnarsi così facilmente
alla sua caduta, anche se la libertà effettiva non esisteva più a
Roma, e non ne restava che l'ombra. Non bisogna biasimare coloro,
come Cicerone, che vi s'attaccano e fanno sforzi disperati per non
lasciarla perire, poiché quest'ombra, questa apparenza li consola
della libertà perduta e infonde loro qualche speranza di
riconquistarla. Questo era ciò che pensavano i Romani che, come
Cicerone, dopo matura riflessione, senza entusiasmo, senza passione,
e senza speranza, andarono a raggiungere Pompeo»; questo è ciò che
Lucano fa dire a Catone in quei versi ammirevoli che esprimono i
sentimenti di tutti coloro che, senza nascondere la triste condizione
della Repubblica, si ostinarono a difenderla fino alla fine: «Come
un padre, che ha or ora perduto il figlio, prova una sorta di piacere
a dirigere i riti funebri, accende con le sue mani il rogo, non lo
lascia che a malincuore e il più tardi possibile, così, Roma, io
non t'abbandonerò prima di averti tenuta morta tra le mie braccia.
Io seguirò fino alla fine il tuo solo nome, o libertà, anche quando
non sarai più che un'ombra vana».
Preoccupazione
costante di Cicerone fu la difesa dello status quo e dei diritti
della grande proprietà latifondista, desideroso soprattutto di
acquisire presso i notabili romani il credito necessario per entrare
a far parte della classe dirigente. Egli si adoperò quindi per la
conservazione del potere e dei privilegi di cui godeva la classe
degli “optimates”,
secondo una formula che, in sostanza, significava sicurezza e
tranquillità (otium)
per tutti i possidenti, e che implicava che il potere (dignitas)
rimanesse nelle mani di un'oligarchia.
Il
suo preteso desiderio che in questa élite si entrasse per "merito"
e non per nascita, quand'anche non lo si voglia meramente intendere
come un sottinteso riferimento alle sue vicende personali, rimase
comunque un'astrazione teorica, un'utopia, più che altro per
l'assenza di una vera modifica nel tessuto politico e sociale della
Roma del periodo.
Cicerone
fu, inoltre, sostenitore dell'ideale politico della “concordia
ordinum”
(intesa tra il ceto equestre e senatorio divenuta poi “concordia
omnium bonorum”,
ovvero concordia di tutti i cittadini onesti), e la esaltò, in
particolare, nella quarta orazione contro Catilina: allora, per la
prima volta nella storia repubblicana, i senatori, i cavalieri ed il
popolo si trovarono d'accordo sulle decisioni da prendere, decisioni
dalle quali dipendeva la salvezza dello stato. Cicerone auspicava che
la concordia potesse durare per sempre, pur capendo che essa era
nata, in quel particolare frangente, solo per la pressione emotiva:
d'altronde, la concordia non faceva leva su un particolare progetto
politico, ma solamente su motivi di carattere sentimentale ed
economico.
- Cicerone filosofo:
Cicerone
fu il primo degli autori romani a comporre opere filosofiche in
latino: ne andava, infatti, molto fiero, ma si scusava, allo stesso
tempo, di aver dedicato alla filosofia così tanto tempo. Alcuni,
infatti, ritenevano che fosse disdicevole per un uomo romano
dedicarsi alla filosofia, altri pensavano che comunque non bisognasse
dedicarle più di un certo tempo. Altri ancora, infine, erano
convinti sostenitori della totale superiorità della filosofia greca,
e consideravano per l'appunto solo le opere greche degne di essere
lette.
Cicerone
era però convinto che, se i Romani si fossero dedicati seriamente
alla filosofia, avrebbero allora raggiunto le stesse vette dei Greci,
che già avevano eguagliato nella retorica. Ma il gusto per le
speculazioni filosofiche era totalmente estraneo alla società
romana: il vir
era, d'altronde, un uomo d'azione. I Romani conobbero la filosofia
grazie al contatto con i Greci, ma consideravano inutile, se non
addirittura deleteria, una vita spesa alla continua ricerca di un
sapere che non portava nessuna gloria alla patria né alcuna
ricchezza. Il Senato arrivò, infatti, addirittura ad espellere
dall'Urbe i filosofi ateniesi che vi erano giunti in visita nel 155
a.C., Carneade, Diogene e Critolao.
La
stessa nobilitas
senatoriale non voleva, poi, che il popolo ed i giovani si
interessassero alla filosofia (che avrebbe prodotto in loro un certo
amore per l'otium,
allontanandoli dalla vita reale), ma furono costretti ad ammettere
che nessun uomo degno di tale nome poteva restare estraneo a questa
scienza. I senatori decisero di richiamare a Roma i filosofi che
avevano scacciato per prendere da loro delle vere e proprie lezioni
di filosofia, vietando, comunque, loro di insegnare la filosofia
pubblicamente. Persino Marco Porcio Catone, fiero oppositore della
penetrazione della cultura greco-ellenistico a Roma, studiò la
filosofia greca, come tutti gli esponenti dell'oligarchia senatoriale
del tempo.
A
riscuotere un istantaneo successo a Roma fu lo stoicismo, ma presto
ad esso si unirono le altre dottrine, i cui esponenti arrivarono "in
massa" a Roma nel corso del I secolo a.C. In poco tempo, dunque,
la situazione aveva subito un totale ribaltamento, e non esisteva più
uomo estraneo alla filosofia.
- Formazione filosofica di Cicerone:
Cicerone
non si comportò diversamente dai suoi contemporanei, ma, almeno in
gioventù, studiò la filosofia convinto che si trattasse
esclusivamente di un valido supporto per la retorica: iniziò a
comporre opere filosofiche, infatti, soltanto in tarda età, quando
solo la composizione, appunto, poteva essere l'impiego del suo tempo
libero. Nella filosofia Cicerone cercò e seppe trovare la
consolazione di cui aveva bisogno, il rimedio somministratogli
dall'antica saggezza.
Da
giovane, Cicerone studiò d'impulso l'epicureismo, dottrina che aveva
avuto numerosi discepoli anche a Roma, tra cui Amafinio, Cazio e
Lucrezio. In principio, Cicerone fu, infatti, allievo di filosofi
epicurei, quali Fedro e Zenone. Più tardi, sotto l'influsso di altri
maestri, abbracciò, almeno in parte, lo stoicismo, ma non ne fu mai
un convinto sostenitore: come altri al suo tempo, elaborò una
personale fusione tra le due filosofie, in modo eclettico.[94]
Mostrò, tuttavia, forti preferenze per la dottrina accademica
insegnatagli da Filone: la teoria del probabilismo e del verosimile
si adattavano perfettamente ad una personalità quale quella di
Cicerone, a cui si addiceva perfettamente anche l'elevazione morale
dello stoicismo. Questa particolare mescolanza fra più filosofie fu
la vera filosofia di Cicerone.
Le
opere filosofiche di Cicerone costituiscono un'importante fonte su
teorie filosofiche ellenistiche poco documentate direttamente. In
particolare gli Academica
sono una testimonianza essenziale sullo scetticismo della media
Accademia. In molti casi Cicerone traduce per la prima volta in
latino termini filosofici greci. Ad esempio i termini probabile e
probabilità, usati con leggere varianti in tutte le lingue
occidentali per indicare concetti filosofici e scientifici, traggono
il loro significato attuale dalla scelta di Cicerone di tradurre con
il latino probabilis il termine πιθανὸς (pithanòs), nel
senso in cui esso è usato da Carneade.
- Opere:
Panoramica
alfabetica di tutte le opere filosofiche:
(17)
- Academica priora (prima stesura dei libri sulla dottrina della conoscenza dell'accademia platonica).
- Catulus (Dialogo) > la prima parte dell'Academica priora, perduto.
- Lucullus (Dialogo) > la seconda parte dell'Academica priora, conservato.
- Academici libri oppure Academica posteriora (versione tarda del trattato sulla dottrina della conoscenza dell'accademia platonica, in quattro libri).
- Cato Maior de senectute ("Catone il censore, sull'anzianità"). Cicerone immagina Catone il Censore all'età di 84 anni ed esprime la sua nostalgia del buon tempo antico, quando a Roma l'uomo politico eminente poteva mantenere prestigio e autorevolezza fino alla più tarda età.
- Consolatio > una consolazione a sé stesso scritta alla morte dell'amata figlia Tullia, in cui Cicerone esorta a considerare la caducità di ogni cosa e l'importanza della filosofia. L'opera è andata perduta.
- De Divinatione ("Sulle profezie"): Quest'opera, probabilmente la più originale tra tutte quelle composte da Cicerone, mette in luce un'opinione molto esplicita sulla fiducia che bisogna riporre nell'arte aruspicina. Sebbene discuta anche delle opinioni stoiche al riguardo, si nota che Cicerone tratta gli argomenti con la dimestichezza di chi ha potuto osservare da vicino il funzionamento della religione romana (nelle vesti di augure), e può trarne un lucido giudizio, che non può non essere negativo. Da quest'opera e dal terzo libro del De natura deorum i primi cristiani attinsero argomenti per combattere il politeismo.
- De finibus bonorum et malorum ("Sui confini del bene e del male"). È un dialogo in cinque libri che si pone il problema di cosa sia il sommo bene, tenendo in considerazione le due filosofie antiche stoica ed epicurea che, rispettivamente, lo classificavano come virtù e piacere.
- De Fato ("Sul Fato"), giuntoci non integralmente. Viene argomentata la dottrina provvidenzialistica degli stoici.
- De natura deorum ("Sull'essenza degli dei"): Il De natura deorum fu scritto nel 44 a.C., subito prima della morte di Cesare, ed inviato a Bruto. Cicerone orchestra una conversazione tra un epicureo, Velleio, uno stoico, Balbo, ed un accademico, Cotta, che espongono e discutono le opinioni dei vecchi filosofi sugli dei e sulla Provvidenza. L'ateismo dissimulato di Epicuro viene confutato da Cotta, che sembra rappresentare lo stesso Cicerone. Cotta prende, poi, la parola, per confutare anche il pensiero stoico riguardo alla Provvidenza. Se Cicerone respingeva con certezza il parere degli epicurei al riguardo, non possiamo, invece, sapere con altrettanta certezza cosa pensasse della religiosità dello stoicismo: le parole di Cotta, pervenuteci, tra l'altro, solo in parte, non contengono nessuna riflessione dello stesso Cicerone. Si è però ipotizzato che Cicerone abbracciasse almeno in parte il probabilismo accademico, sebbene suoi ammiratori fossero invece convinti che si fosse allontanato del tutto dallo scetticismo. Comunque, è importante il poter constatare l'estrema discrezione dell'atteggiamento di Cicerone: egli è persuaso che il culto nell'esistenza degli dei e nella loro azione sul mondo debba esercitare una profonda influenza sulla vita, e che è, dunque, di un'importanza fondamentale per il governo di uno stato. Esso deve, perciò, essere mantenuto vivo nel popolo. Sono il politico e l'augure che parlano. Cicerone non trova gli argomenti degli stoici molto convincenti, e li confuta per mezzo di Cotta. Infine, si dice incline a credere che gli dei esistano e che governino il mondo: lo crede, perché è un'opinione comune a tutti i popoli. Questo" accordo" universale equivale per lui ad una legge della natura (consensus omnium populorum lex naturae putanda est). In quanto alla pluralità degli dei, sebbene non si esprima categoricamente su questo punto, sembra che non ci creda, o per lo meno che, come gli stoici, consideri gli dei come nient'altro, per così dire, che le emanazioni del Dio unico. Concepisce poi questo Dio unico come uno spirito libero e privo di qualsiasi elemento mortale, all'origine di tutto. Non risparmia, invece, i racconti mitici del politeismo greco-romano; schernisce e condanna le leggende comuni a tutti i popoli. Era soprattutto questa parte dell'opera, il terzo libro, ad affascinare i filosofi del XVIII secolo: non era difficile mettere in luce gli aspetti ridicoli della religione popolare, e si può dire che anche al tempo di Cicerone ciò era diventato un luogo comune filosofico. Gli uni, respingendo con disprezzo queste favole, che giudicavano grossolane, respingevano anche ogni credenza; gli altri adottavano la dottrina stoica. A Cicerone, invece, l'esistenza degli dei appariva come necessaria: tutti i popoli credevano, e di conseguenza credeva anche lui. Pressappoco nello stesso modo, Cicerone analizza, poi, il tema dell'immortalità dell'anima, prendendo in prestito molte delle opinioni espresse a questo proposito da Platone.
- De officiis ("Sui doveri"): Il De officis, che - pare - fu scritto dopo la morte di Cesare, nel 44 a.C., è l'ultima opera filosofica di Cicerone, che la dedicò al figlio Marco, che si trovava ad Atene. L'opera, ispirata ad un lavoro dello stoico Panezio, è divisa in tre libri: il primo tratta di ciò che è onesto, il secondo di ciò che utile, ed il terzo traccia una comparazione tra utile ed onesto. Nell'opera, Cicerone non fornisce profonde spiegazioni con rigore scientifico, ma enuncia una serie di ottimi precetti, indispensabili per fare di un uomo un buon cittadino romano, ligio ai suoi doveri e dunque in grado di vivere nell'ottica della virtus.
- Hortensius: sorta di προπεμπτικόν (propemptikon) ovvero esortazione alla filosofia, modellata su un'analoga opera perduta di Aristotele. Come testimoniato dal proemio al II libro del De divinatione, in essa appariva Quinto Ortensio Ortalo, il quale svalutava l'attività filosofica; contro questa tesi si pronunciava Cicerone. L'opera fu assai apprezzata nell'antichità, specie da Agostino; essa è andata perduta e gli unici frammenti pervenutici provengono da citazioni che ne fa appunto Agostino.
- Laelius seu de amicitia ("Lelio" o "sull'amicizia").
- Paradoxa Stoicorum (Teoremi di spiegazione dei paradossi etici della scuola degli stoici): Si tratta di esercitazioni di casistica oratoria, spesso giudicate di basso livello dalla critica.
- Tusculanae disputationes ("Conversazioni a Tusculum"): Le Tusculanae disputationes furono composte nel 45 a.C., sotto la dittatura di Cesare, quando Catone Uticense era già stato costretto al suicidio e la repubblica aveva, in fin dei conti, cessato di esistere. Il dittatore si era dimostrato clemente, ma aveva dato a intendere agli intellettuali che non avrebbe accettato una loro "insubordinazione": a Cicerone, che aveva scritto un libro in memoria di Catone, Cesare aveva risposto con l'Anticato ("Anticatone"), in cui criticava l'illustre morto, mostrando quale sarebbe stato il suo atteggiamento verso gli oppositori. Per Cicerone la situazione era davvero complicata: sua figlia Tullia era appena morta, e la vita politica aveva perso ogni senso. L'oratore decise dunque di ritirarsi nella villa di Tusculum, particolarmente amata da Tullia, dove si dedicò allo studio della filosofia. Gli argomenti delle disputationes rispecchiano dunque il suo stato d'animo: cos'è la morte? Cos'è il dolore? C'è un modo per alleviare le afflizioni dell'animo? Cosa sono le passioni? Come si deve confrontare il saggio nei confronti di questi elementi turbatori della propria imperturbabilità? Infine: cos'è la virtù? Basta a rendere felice una vita? Tra le ultime riflessioni ve n'è anche una a proposito del suicidio, inteso come mezzo per eludere la morte. Cicerone tratta questi temi con il suo solito stile eloquente, ma vi si intravede un forte senso d'impotenza: è evidente che il suo pensiero è sempre rivolto, nonostante tutto, a Roma ed alla politica.
- De re publica ("Sulla repubblica"), sul modello della Repubblica di Platone: Si rimanda alla voce specifica.
- De legibus ("Sulle leggi"): Il De legibus fu composto probabilmente nel 52 a.C., dopo che Cicerone era stato nominato augure. Si tratta di uno scritto che può considerarsi complementare del De re publica, del quale ricalca pregi e difetti: non è un lavoro puramente filosofico, né un semplice trattato di giurisprudenza, ma piuttosto un compromesso tra le due scienze. Nel primo libro, ispirato all'omonima opera di Platone e al trattato Sulle leggi di Crisippo, Cicerone dimostra con una grande elevazione di pensiero e di stile l'esistenza di una legge universale, eterna, immutabile, conforme alla ragione divina, che si confonde con lei. Proprio la ragione divina, infatti, costituisce il diritto naturale, che esisteva prima di tutti gli ordinamenti. Dopo quest'avvio, Cicerone passa all'analisi delle leggi in rapporto alle varie forme di governo, così come farà, molto tempo dopo, Montesquieu. Non avendo a disposizione altra repubblica all'infuori di quella romana, Cicerone non immagina leggi diverse da quelle romane: esse sono le leggi perfette. Terminata l'analisi, Cicerone si limita, nel secondo libro, ad enunciare le poche che possono essere considerate imperfette, soprattutto tra quelle che regolano il culto. L'attenta analisi delle consuetudini religiose appare, alla luce della data di pubblicazione, come un'attenta manovra di propaganda, con la quale Cicerone appare ai suoi concittadini come uomo ben degno della carica sacerdotale che gli è stata affidata. Nel terzo libro, di cui sono andati perduti alcuni passi, Cicerone analizza la natura e l'organizzazione del potere, il carattere delle diverse funzioni dello stato e l'antagonismo salutare che deve esistere tra le forze che lo costituiscono. Queste domande, di interesse generale così vivo poiché toccavano direttamente il problema della libertà politica, avevano un'importanza considerevole per i contemporanei di Cicerone. Quale doveva essere la parte dell'aristocrazia o del senato, e quale quella del popolo nel governo della repubblica? Non era lontano il tempo in cui Cesare avrebbe dato la risposta definitiva a questo quesito, e tutti coloro che presagivano ciò che sarebbe accaduto tentavano di rafforzare l'autorità della nobilitas e del senato. Nell'opera, il fratello di Cicerone, Quinto, è fortemente contrario al tribunato della plebe, carica che ritiene potenzialmente troppo pericolosa: Cicerone, pur discostandosi dalle opinioni del fratello, riconosce il pericolo che il tribunato della plebe costituisce per il mantenimento della calma e della pace. Possediamo solamente i primi tre libri del De legibus: ce n'erano probabilmente sei. Il quarto era dedicato all'esame del diritto politico, il quinto al diritto criminale, il sesto al diritto civile. Si trattava di opere particolarmente preziose, perché Cicerone non ha mai trattato altrove gli stessi argomenti. Non dimentichiamo che i trattati De re publica e De legibus furono scritti in un'epoca durante la quale la costituzione romana era ancora in piedi, prima della guerra civile e la fine dell'antica libertà. Questa circostanza spiega il carattere dei due lavori: sono al tempo stesso libri teorici e pratici, ed anche tecnici. Dopo l'avvento di Cesare, l'elemento speculativo dominerà nella filosofia di Cicerone, che infatti fuggirà la vita pubblica per ritirarsi nella contemplazione.
Orazioni:
Cicerone
è certamente il più celebre oratore dell'antica Roma. Nel Brutus
egli ritiene completato con se stesso (non senza un certo fine
autocelebrativo) lo sviluppo dell'arte oratoria latina, e già da
Quintiliano la fama di Cicerone quale modello classico dell'oratore è
ormai incontrastata. Cicerone ha pubblicato da sé la maggior parte
dei suoi discorsi; cinquantotto orazioni (alcune parzialmente
lacunose) le abbiamo ricevute nella versione originale, circa 100
sono conosciute per il titolo o per alcuni frammenti. I testi si
possono dividere grosso modo tra orazioni pronunciate di fronte al
Senato o al popolo e tra le arringhe pronunciate in qualità di -
utilizzando termini moderni - avvocato difensore o pubblica accusa,
nonostante anche questi ultimi abbiano spesso un forte substrato
politico, come nel celeberrimo caso contro Gaio Verre, unica volta in
cui Cicerone compare come accusatore in un processo penale. Il suo
successo è dovuto alla sua abilità argomentatoria e stilistica, che
si sa adattare perfettamente all'oggetto dell'orazione e al pubblico,
soprattutto alla sua tattica astuta, che si adatta di volta in volta
al particolare uditorio, appoggiando appropriatamente diverse scuole
filosofiche o politiche, al fine di convincere il pubblico contrario
e raggiungere il proprio scopo.
Tecniche
di memorizzazione:
Per
memorizzare i suoi discorsi Cicerone utilizzava una tecnica
associativa che venne chiamata tecnica dei loci o tecnica delle
stanze. Egli scomponeva il discorso in parole chiave e parole
concetto che gli permettessero di parlare dell'argomento desiderato e
associava queste parole, nell'ordine desiderato, alle stanze di una
casa o di un palazzo che conosceva bene, in modo creativo e insolito.
Durante l'orazione egli immaginava di percorrere le stanze di quel
palazzo o di quella casa, e questo faceva sì che le parole concetto
del suo discorso gli venissero in mente nella sequenza desiderata. È
da questo metodo di memorizzazione che derivano le locuzioni italiane
"in primo luogo", "in secondo luogo" e così via.
Panoramica
alfabetica di tutte le orazioni:
(40)
- De domo sua ad pontifices ("Sulla propria casa, al collegio pontificale", 57 a.C.): arringa pronunciata per uno scopo particolare: durante l'esilio di Cicerone il suo avversario Clodio aveva consacrato una parte della proprietà di Cicerone sul Palatino alla dea Libertas; Cicerone dichiara questa consacrazione invalida per ottenerne la restituzione. È da tale contesto che nasce la locuzione Cicero pro domo sua.
- De haruspicum responsis ("Sul responso degli aruspici", 56 a.C.): Clodio redige un passo sulla profanazione di alcune reliquie durante una perizia degli aruspici sul terreno di Cicerone sul Palatino e chiede la demolizione di una casa di Cicerone ivi in costruzione. Contro questa ed altre accuse Cicerone si rivolge con un appello al Senato, nel quale spiega, che la maggior parte delle accuse di Clodio si basano su indagini dolosamente carenti.
- De imperio Cn. Pompei (De lege Manilia) ("Sul comando di Gneo Pompeo (sulla legge Manilia)", 66 a.C.), orazione di carattere politico pronunciata di fronte al popolo in occasione dell'attribuzione, effettuata su proposta del tribuno della plebe Gaio Manilio, a Gneo Pompeo di poteri speciali per la conduzione di una campagna militare contro il re del Ponto Mitridate VI.
- De lege agraria (Contra Rullum) I–III ("Sulla legge agraria (contro Rullo)", 63 a.C.): orazione pronunciata durante l'anno di consolato, tenuta in Senato (I) e davanti al popolo (II/III); un quarto dell'orazione è stato perduto.
- De provinciis consularibus ("Sulle province consolari", 56 a.C.), orazione pronunciata in senato riguardo alle province consolari romane.
- De Sullae bonis ("Sui beni di Silla", 66 a.C.).
- Divinatio in Caecilium ("Dibattito contro Cecilio", 70 a.C.), dibattito riguardo l'assunzione del ruolo di accusatore nel processo contro Verre. Quinto Cecilio Nigro fu sotto Verre questore in Sicilia e presentò la propria candidatura nel ruolo di accusatore. Per Cicerone egli era infatti invischiato nelle macchinazioni di Verre.
- In L. Calpurnium Pisonem ("Contro Lucio Calpurnio Pisone", 55 a.C.), orazione d'accusa politica contro Lucio Calpurnio Pisone Cesonino.
- In Catilinam I–IV ("Contro Catilina I-IV" ovvero "Le Catilinarie", 63 a.C.), orazioni contro Lucio Sergio Catilina: i discorsi del 7 e dell'8 novembre 63 a.C. pronunciati di fronte al Senato (I) e al popolo (II); i discorsi della scoperta e della condanna dei seguaci di Catilina, del 3 dicembre di fronte al popolo (III) e del 5 dicembre di fronte al Senato (IV)
- In P. Vatinium ("Contro Publio Vatinio", 56 a.C.), orazione accusatoria contro P.Vatinio riguardo l'interrogatorio nel processo contro P.Sestio.
- In Verrem actio prima ("Prima accusa contro Verre", 70 a.C.), orazione accusatoria nel processo contro Verre, accusato di concussione (crimen pecuniarum repetundarum)
- In Verrem actio secunda I–V ("Seconda accusa contro Verre I–V", 70 a.C.), questi cinque discorsi non sono mai stati pronunciati a causa dell'esilio volontario di Verre, ma vennero comunque pubblicati in forma scritta.
- Oratio cum populo gratias egit ("Ringraziamento al popolo", 57 a.C.), ringraziamento a tutti coloro che hanno appoggiato il ritorno di Cicerone dall'esilio, e gli hanno permesso il rientro nella vita politica.
- Oratio cum senatui gratias egit ("Ringraziamento al senato", 57 a.C.), ringraziamento a tutti coloro che in Senato hanno appoggiato il ritorno di Cicerone dall'esilio, e gli hanno permesso il rientro nella vita politica.
- Philippicae orationes I – XIV ("Le filippiche", 44 a.C./43 a.C.), orazioni contro Marco Antonio.
- Pro Aemilio Scauro ("In difesa di Emilio Scauro", 54 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore.
- Pro T. Annio Milone ("In difesa di Tito Annio Milone", 52 a.C.), orazione difensiva, originariamente diversa dalla versione pubblicata, non sortì il proprio effetto in quanto la curia era assediata dai fedeli della fazione clodiana. Dopo l'esilio di Milone subirà profonde modifiche per essere pubblicata quale ci è pervenuta: la più bella orazione di Cicerone. Contiene tra l'altro la celebre citazione "Inter arma enim silent leges"
- Pro Archia ("In difesa di Archia", 62 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore del poeta antiochiano Aulo Licinio Archia.
- Pro Aulo Caecina ("In difesa di Aulo Cecina", 69 a.C./ca. 71 a.C.), orazione tenuta per il querelante in un processo civile per un'azione di rivendicazione. Il fondamento giuridico è l'interdetto de vi armata (rimedio del possessore contro lo spossessamento violento). Sostenitore della parte avversa è Gaio Calpurnio Pisone; entrambe le parti fanno ricorso manifestamente all'autorevolezza del giurista Gaio Aquilio Gallo.
- Pro M. Caelio ("In difesa di M. Celio", 56 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore.
- Pro A. Cluentio Habito ("In difesa di Aulo Cluenzio Abito", 66 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore.
- Pro G. Cornelio ("In difesa di Gaio Cornelio", 65 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore.
- Pro L. Cornelio Balbo ("In difesa di Lucio Cornelio Balbo", 56 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore.
- Pro P. Cornelio Sulla ("In difesa di Publio Cornelio Silla", 62 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore.
- Pro Marco Fonteio ("In difesa di Marco Fonteio", 69 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore.
- Pro Q. Ligario ("In difesa di Quinto Ligario" 46 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore di Quinto Ligario, indirizzata a Cesare in quanto dittatore.
- Pro Marco Marcello ("In difesa di Marco Marcello", 46 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore di Marco Marcello, indirizzata a Cesare in quanto dittatore.
- Pro muliere Arretina ("In difesa di una donna di Arezzo", 80 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore.
- Pro Lucio Murena ("A favore di Murena", 63 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore in un processo di corruzione elettorale.
- Pro Gneo Plancio ("In difesa di Gneo Plancio", 54 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore.
- Pro Publio Quinctio ("In difesa di Publio Quinzio", 81 a.C.), il più antico discorso giuridico tradizionale di Cicerone a favore del querelante in un processo civile. Oggetto del contendere è la legittimità dell'azione di sequestro preventivo eseguita dal convenuto Sesto Nevio contro il cliente di Cicerone Publio Quinto. Difensore della parte avversa è Quinto Ortensio Ortalo, giudice è Gaio Aquilio Gallo.
- Pro C. Rabirio perduellionis reo ("In difesa di Gaio Rabirio, colpevole di alto tradimento", 63 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore.
- Pro Rabirio Postumo ("In difesa di Rabirio Postumo"), 54 a.C./53 a.C. oppure 53 a.C./52 a.C.), orazione difensiva pronunciata nella fase pregiudiziale del processo contro Aulo Gabinio a causa di concussione nelle province. Verte attorno alla presenza di "bustarelle" in connessione con la reintegrazione al trono d'Egitto di Tolomeo XII Aulete.
- Pro rege Deiotaro ("In difesa del re Deiotaro", 45 a.C.), orazione in difesa del Re Deiotaro, rivolta a Cesare
- Pro Sex. Roscio Amerino ("In difesa di Sesto Roscio da Amelia", 80 a.C.), orazione di difesa, è la prima arringa di Cicerone in un processo per omicidio. Sesto Roscio era accusato di parricidio. Durante la guerra civile un parente si era impossessato del patrimonio del padre di Roscio e ora cercava di assicurarsi il maltolto, il quale apparteneva ai legittimi eredi del deceduto. Cicerone ottenne l'assoluzione.
- Pro Q. Roscio Comoedo ("In difesa dell'attore Quinto Roscio", circa 77 a.C. o 76 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore.
- Pro P. Sestio ("In difesa di Publio Sestio", 56 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore.
- Pro Titinia ("In difesa di Titinia", 79 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore.
- Pro Marco Tullio ("In difesa di Marco Tullio", 72 a.C./71 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore.
- Pro L. Valerio Flacco ("In difesa di Lucio Valerio Flacco", 59 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore.
Scritti
di retorica:
Così
come per Cicerone è difficile distinguere tra vita ed opere, così
in particolare differenziare tra scritti filosofici e retorici è sì
pratico e chiaro, ma tuttavia non rappresenta pienamente la
concezione e l'opinione di Cicerone. Già nella sua prima opera
conservata (De
inventione I 1-5)
chiarisce che la sapienza, l'eloquenza e l'arte del governare hanno
sviluppato un legame naturale, che indubbiamente ha contribuito allo
sviluppo della cultura degli uomini e che dev'essere ristabilito.
Egli ha in mente quest'unità come modello ideale sia negli scritti
teoretici sia anche nella sua propria vita “activa”
al servizio della Repubblica - o almeno è così che egli ha voluto
idealizzare e vedere la propria realtà.
Perciò
non è affatto sorprendente se Cicerone ha sviluppato i suoi scritti
filosofici con i mezzi della retorica e strutturato le sue teorie
della retorica su principi filosofici. La separazione tra sapienza ed
eloquenza Cicerone l'addossa alla "rottura tra linguaggio e
intelletto" compiuta dalla filosofia socratica (De
oratore III 61)
e tenta attraverso i suoi scritti di "risanare" questa
frattura; e quindi per una migliore attuazione la filosofia e la
retorica secondo lui devono essere dipendenti l'una dall'altra (v.
p.e. De
oratore III 54-143);
Cicerone stesso dichiara che "io sono diventato un oratore [...]
non nelle scuole dei retori ma nei saloni dell'Accademia": con
ciò allude alla sua formazione sulle dottrine della Nuova Accademia
di Carneade e Filone di Larissa, suo maestro.
Panoramica
alfabetica delle opere sulla retorica pervenuteci:
(7)
- Brutus: il libro dedicato a Marco Giunio Bruto venne scritto all'inizio del 46 a.C. e tratta nella forma di un dialogo tra Cicerone, Bruto ed Attico la storia dell'arte retorica romana fino a Cicerone stesso. Dopo un'introduzione (1-9) Cicerone inizia un confronto con la retorica greca (25-31) e sottolinea che l'arte oratoria poiché è la più complessa di tutte le arti solo tardi giunse alla perfezione. Mentre ritiene gli antichi oratori romani appena mediocri, parla di Catone come base della propria esperienza; Lucio Licinio Crasso e Marco Antonio Oratore, entrambi protagonisti del De oratore, sono dettagliatamente confrontati (139 e ss.). Dopo un'escursione sull'importanza del giudizio del pubblico (183-200) e una riflessione sull'oratore Ortensio (201-283), Cicerone respinge fermamente il modello dell'Atticismo (284-300). L'opera culmina in confronto tra l'arte oratoria di Ortensio e di Cicerone stesso, non senza una grossa dose di autocelebrazione (301-328), egli infatti presenta se stesso come il punto d'arrivo di un processo di sviluppo dell'arte oratoria. Punto principale dell'opera è la critica alla diffusione dello stile neoattico, a cui anche il giovane Bruto appartiene, difendendo il suo stile, assai più ricco e magniloquente, dalla critica di essere un esempio dello stile asiano.
- De inventione: ("Sul ritrovamento"): sviluppato tra l'85 a.C. e l'80 a.C. questo è il primo di due libri di una descrizione globale della retorica, mai completata. Cicerone rinunciò a completarla, per dedicarsi ad una più accattivante rappresentazione nel De oratore, e tuttavia l'opera servì, nonostante il carattere frammentario, come testo d'insegnamento fino al Medioevo. La parte completata tratta nel primo libro dei concetti principali della retorica (I 5-9), la dottrina dell'insegnamento della retorica in riferimento ad Ermagora di Temno (I 10-19) nonché il ruolo dell'oratore (I 19-109); il secondo libro tratta delle tecniche d'argomentazione, soprattutto nelle arringhe giuridiche (II 11-154) nonché brevemente sulle orazioni di fronte al popolo (II 157-176) e in occasione di celebrazioni (II 177-178). Le dichiarazioni di Cicerone per quanto riguarda il contenuto dell'opera presentano molte somiglianze con l'opera "La Retorica" di Erennio, ma per lungo tempo erratamente ritenuta sua, cosa che ha portato a numerose discussioni tra gli studiosi riguardo al rapporto tra le due opere. Entrambi gli scritti sono comunque all'incirca dello stesso periodo e si basano direttamente o indirettamente sulla medesima o su affini fonti greche. Inoltre c'è un'incredibile somiglianza letterale in alcuni periodi, cosa che suggerisce probabilmente anche una comune fonte latina, forse originaria da un comune insegnante o dottrinario che ha mediato il preponderante contenuto di origine greca.
- De optimo genere oratorum ("Sulla miglior arte dell'oratoria"): questa breve opera, scritta probabilmente nel 46 a.C. o, secondo altri pareri, già nel 50 a.C., è un'introduzione alla traduzione delle orazioni di Demostene ed Eschine, per e contro Ctesifonte. L'introduzione verte soprattutto sugli atticisti romani, all'incirca con le stesse argomentazioni dell'Orator. La traduzione comunque non ci è pervenuta, e non è chiaro se Cicerone l'abbia mai effettivamente completata. L'autenticità dell'opera è stata più volte messa in discussione, ma oggi è per lo più accettata.
- De oratore (Sull'oratore): la più importante opera sulla retorica di Cicerone non dev'essere confusa con l'opera quasi omonima Orator. È un'opera composta nel 55 a.C. in forma di dialogo, così come per il Brutus. I protagonisti stavolta sono Lucio Licinio Crasso e Marco Antonio, esempi, secondo Cicerone, dei più grandi oratori della generazione precedente. Nel I libro è Crasso (portavoce di Cicerone) ad esporre la tesi principale dell'opera ossia che il buon oratore deve avere un'approfondita conoscenza dell'argomento di cui vuole trattare, osteggiando la concezione di alcuni retori greci che ritenevano sufficiente una formazione basta su regole, tecnicismi ed esercizi per affrontare qualsiasi discorso. Il II libro tratta invece delle "parti" in cui si suddivide la retorica, cioè l'inventio, la dispositio e la memoria; nel III libro si parla dello stile, cioè l'elocutio, e dell'actio, cioè il modo in cui l'oratore deve comportarsi durante l'orazione. Il de oratore è considerata l'opera di Cicerone scritta con più cura formale ed è per questo motivo che è sempre stata utilizzata e studiata come modello primo dello stile ciceroniano.
- Orator ("L'oratore"): Venne scritta nell'estate del 46 a.C. ed è anche questa un'opera dedicata a Marco Giunio Bruto che descrive un modello ideale del perfetto oratore, riprendendo molti dei temi già trattati nel De oratore. Contrariamente alla disputa di quel tempo tra gli atticisti, che - come Bruto - pretendono dall'oratore uno stile sobrio e preciso, e gli asiani, che prediligono uno stile molto ricercato e magniloquente, Cicerone ritiene che il perfetto oratore, come Demostene, deve dominare tutti gli stili e saper passare da uno all'altro con naturalezza. Per questo motivo bisogna dedicarsi soprattutto alla formazione filosofica: solo così potrà svolgere i tre compiti dell'oratore: probare, delectare, flectere (dimostrare, divertire, convincere), i quali vengono ben ordinati e descritti (76-99). Cicerone parla anche qui brevemente dell'inventio (44-49), della dispositio (50) ma tratta soprattutto dell'elocutio (51-236), soffermandosi sulle figure retoriche e sulla costruzione ritmica del periodo.
- Partitiones oratoriae ("Partizione dell'arte oratoria"): Quest'opera venne scritta nel 54 a.C., quando il figlio di Cicerone, Marco, stava studiando la retorica, ed è ideata come una sorta di 'Catechismo', trattando la teoria della retorica, soprattutto con divisioni schematiche, nella forma di domanda e risposta tra padre e figlio. L'originalità di Cicerone in quest'opera spicca molto meno, a causa dello stile molto semplice e delle poche novità introdotte.
- Topica (44 a.C.): scritti nel corso del viaggio in Grecia, su sollecitazione dell'amico Trebazio, trattano della dottrina dell'inventio divulgata da Aristotele, ovvero l'arte di saper trovare gli argomenti. In questa produzione retorica vengono considerati i luoghi (topoi) come ottimo spunto per ogni genere di argomento ed utilizzabili per qualunque disciplina (poesia, politica, retorica, filosofia, ecc.)
Opere
perdute:
Tra
le opere tardive di Cicerone si possono annoverare scritti
consolatori, contributi alla storiografia, poesie (alcune anche sul
suo periodo di consolato) e traduzioni. Queste opere sono per la
maggior parte perdute. Delle poesie ci rimangono comunque svariate
citazioni anche in altri lavori dello stesso Cicerone. Questi
frammenti dimostrano l'influenza di uno dei più importanti poeti
latini, Catullo e di altri neoterici.
Panoramica
alfabetica delle opere poetiche ed epico-storiche di Cicerone:
(11)
- Alcyones: epillio composto da Cicerone dopo il 92 a.C. nel quale veniva cantato il mito di Alcione e del marito Ceice. Dato che questi si paragonavano a Giove e Giunone per la loro ricchezza, sfarzosità e potenza, gli dei fecero fare loro naufragio durante un tragitto in mare. Dato che Ceice morì nella tempesta, Alcione si lasciò annegare per il dolore, così Giove tramutò entrambi i defunti in uccelli alcioni.
- Aratea: libera traduzione giovanile dei Fenomeni celesti del poeta ellenistico Arato di Soli.
- De consulatu suo: poemetto autobiografico composto da Cicerone tra il 60 a.C. e il 55 a.C. in cui si parla dell'ascesa al consolato dell'autore e della sua vittoria nel processo contro Lucio Sergio Catilina.
- De temporibus suis: altra opera autobiografica perduta scritta nel 54 a.C. in cui Cicerone celebrava i suoi interventi migliori durante il consolato.
- Epigrammata ("Epigrammi"): componimenti satirici scritti da Cicerone quando aveva circa vent'anni. Stando alle testimonianze dello scrittore Quintiliano, l'opera era di genere comico e ironico e trattava di vari argomenti fantastici e reali.
- Līmōn: il titolo deriva dal sostantivo greco Λειμών, "prato"; ciò sottolineava il carattere variegato dell'opera, un poema in esametri in cui venivano trattati diversi argomenti letterali e sociali. Infatti una testimonianza di Svetonio riporta un giudizio severo dell'autore riguardo un'opera del commediografo Terenzio.
- Marius: poema epico-storico in cui Cicerone parla delle imprese del console Gaio Mario. L'opera è importante per il passaggio dell'autore dal genere alessandrino a quello storico mescolato alla poesia, cioè epico.
- Nilus: opera quasi sconosciuta. Si pensa che Cicerone l'abbia scritta per lodare le qualità del fiume Nilo dell'Egitto.
- Pontius Glaucus: componimento in stile alessandrino di Cicerone. Scritto circa nel 93 a.C., l'opera trattava del mito di Glauco, il quale dopo aver mangiato un'erba afrodisiaca dai poteri magici, si trasformò in un animale marino.
- Tymhaeus: vasti frammenti del lavoro compiuto sul Timeo di Platone, che Cicerone presumibilmente non ha mai pubblicato, preparando semplicemente abbozzi di traduzione.
- Uxorius: opera nota quasi esclusivamente attraverso il titolo; esso vale Il marito docile e perciò si ritiene avesse carattere scherzoso e argomento leggero, se non apertamente comico.
Epistolario:
Edizione
delle Epistole agli amici, Venezia 1547
Le
epistole di Cicerone furono riscoperte tra il 1345 e il 1389 da
Petrarca e dal cancelliere e umanista Coluccio Salutati.
Complessivamente furono ritrovate circa 864 lettere, delle quali una
novantina furono scritte da corrispondenti, e ciò inizialmente
provocò un grande entusiasmo, temperato successivamente dal fatto
che l'immagine che traspariva di Cicerone non era quella dello
strenuo eroe difensore della Repubblica, come si era sempre dipinto
nelle sue opere e nelle sue orazioni, ma una versione molto più
umana, con le sue debolezze e i suoi aspetti meno retorici, ma
certamente affascinanti nella loro genuinità.
Le
epistole furono raccolte e archiviate dal segretario di Cicerone,
Tirone, fra il 48 e il 43 a.C. Si dividono in 4 categorie:
- Epistole agli amici (Epistulae ad familiares) (16 libri);
- Epistole al fratello Quinto (Epistulae ad Quintum fratrem) (3 libri);
- Epistole a Marco Giunio Bruto (Epistulae ad M. Brutum) (2 libri);
- Epistole ad Attico (Epistulae ad Atticum) (16 libri).
- Presente in tutto il medio evo, il ricordo di Cicerone fiorì durante il Rinascimento; Giovanni I di Brandeburgo principe elettore del Brandeburgo nel XV secolo, venne ricordato, dopo la sua morte, con l'appellativo di Cicerone, proprio a causa della sua eloquenza.
- Negli Stati Uniti d'America vi sono ben quattro città cui è stato dato il nome "Cicero" in onore di Marco Tullio Cicerone. Inoltre l'espressione latina “Cicero pro domo sua” viene utilizzata per descrivere chi parla sostenendo il proprio tornaconto, ma che maschera più o meno bene il fine del suo discorso come perorazione per altra causa. Essa deriva da un'orazione tenuta da Marco Tullio nel 57 a.C. per ottenere la restituzione della propria casa, requisitagli durante l'esilio.
- Il nome di Cicerone è diventato un'antonomasia per indicare la guida che accompagna i turisti nella visita a monumenti e luoghi illustrando loro ciò che stanno visitando. Parimenti con il nome Cicerone vengono identificate le marche da bollo, di diverso valore (e colore), ma tutte riportanti l'effigie del busto di Marco Tullio Cicerone, da apporre agli atti giudiziari, il cui ricavato alimenta il Fondo di previdenza degli avvocati.
Nessun commento:
Posta un commento