sabato 12 dicembre 2020

Schema riassuntivo dei dodici libri dell'Eneide



SCHEMA RIASSUNTIVO DEI DODICI LIBRI DELL’ENEIDE



LIBRO I:

Alla maniera omerica, la narrazione, preceduta da un proemio, comincia "in medias res", presentando la flotta troiana nel Mediterraneo orientale mentre naviga guidata da Enea alla volta dell'Italia dove spera di trovare una seconda patria, per volere del fato. Enea, esule dalla città di Troia, tenta di raggiungere il Lazio per fondarvi una nuova città e portare in Italia i Penati, una stirpe nobile e coraggiosa e una razza che sarà conosciuta e rispettata da tutti i popoli, come stabilito da una profezia, per fondare Roma. Parte con una flotta di 20 navi, nonostante l'opposizione di Giunone. La dea infatti è adirata per tre motivi:

  1. perché ha perso la gara di bellezza contro la madre di Enea (Venere);

  2. perché la sua città favorita, Cartagine, è destinata ad essere distrutta dalla stirpe troiana nata da una relazione tra Zeus ed Elettra;

  3. perché Ganimede era stato scelto come coppiere al posto di Ebe, la figlia di Giunone.

Per 7 anni i profughi veleggiarono nel Tirreno, al largo della Sicilia, quando Giunone li vide. La dea, al colmo dell'ira, si reca in Eolia, patria dei Venti, da Eolo che li custodisce tenendoli rinchiusi in un otre all'interno di un massiccio montuoso, per chiedergli di scatenare una tempesta. La dea offre ad Eolo, Deiopea, la ninfa più bella di Giunone, ma il re dei venti, pur accettando, le ricorda che è comunque suo dovere fare ciò che gli viene richiesto dalla regina degli dei, in quanto il suo potere deriva da lei, indifferentemente dal dono. E così il maltempo danneggia pesantemente la flotta, provocando anche l'affondamento della nave dei Lici - alleati dei Troiani - molti dei quali muoiono annegati, compreso il loro capo Oronte. Nettuno se ne accorge e, nonostante non sia neppure lui amico dei Troiani, si infuria per l'intrusione di altri nei suoi domini; spinto anche dal rispetto per il valore di Enea, interviene placando i venti e calmando le acque (come un uomo saggio placa una sommossa). La flotta riesce così ad ancorare sulla costa d'Africa, in Libia, in una città, Cartago. Preoccupata per la sorte del figlio, Venere intercede a suo favore presso Giove. Questi la rassicura dicendole che, ottenuta la benevolenza di Giunone, l'eroe vedrà premiati i suoi sforzi, con la prima profezia dell'Eneide (Enea governerà tre anni, il figlio Ascanio Julio trenta e i suoi discendenti, fino a Romolo e Remo, per trecento). Quindi il re degli dei invia Mercurio a Cartagine, con il compito di predisporre i Cartaginesi ad una favorevole accoglienza di Enea e i compagni superstiti. Nel frattempo Venere, assunte le sembianze di una giovane cacciatrice, molto somigliante alla dea Diana, si manifesta al figlio per spiegargli la vicenda della città, fondata dai Fenici emigrati dalla propria terra al seguito della regina di Tiro, Didone, fuggita dopo che il fratello Pigmalione le aveva ucciso il marito Sicheo per impadronirsi del regno. Enea si reca dunque fiducioso in quella città, ricevendo ottima accoglienza dalla regina, poiché anche lei ha patito dolori. Venere, temendo le insidie di Giunone, ordina al figlio Cupido, dio dell'amore, di prendere il posto di Ascanio, il figlio di Enea, assumendone le sembianze, affinché, toccando il cuore della regina, questa si innamori dell'eroe. Didone così offre un importante banchetto ai Troiani e invita Enea a narrare in quella sede le sue traversie.



LIBRO II:

Durante il banchetto che viene dato in onore dei Troiani, Enea racconta la sua storia e le sue vicende e i fatti che hanno provocato il fortuito arrivo della sua gente da quelle parti, a partire dalla caduta di Troia. L'astuto Ulisse aveva trovato il modo di riuscire ad entrare nella città facendo costruire un enorme cavallo di legno, che avrebbe racchiuso nascosti al suo interno lui e alcuni dei migliori guerrieri greci. I Troiani, all'oscuro di tutto, ingannati peraltro dall'acheo Sinone che aveva millantato loro la partenza dei greci (poi rivelatasi falsa; egli aveva anche fatto credere di essere stato minacciato da Ulisse), e incuriositi dal cavallo, avevano deciso di trasportarlo dentro le mura della città, incuranti delle profezie di Cassandra e di Laocoonte che a sua volta aveva cercato di avvertirli del pericolo e che fu per questo stritolato insieme ai due figlioletti da una coppia di serpenti marini inviati da Minerva. Usciti nottetempo dal cavallo, i guerrieri greci avevano cominciato a mettere Troia a ferro e fuoco. Enea, svegliato all'improvviso dal fantasma di Ettore aveva visto con orrore che cosa stava succedendo alla sua amata città natale. Radunati alcuni guerrieri, organizzò la fuga dalla città: il principe frigio Corebo si unì al gruppo, ma cadde ucciso da Peneleo nel tentativo di salvare Cassandra, la figlia di Priamo di cui era innamorato, dalle grinfie dei greci. Il capo troiano assistette anche alla barbara uccisione del re Priamo da parte di Pirro Neottolemo, il figlio di Achille. Allontanatosi dai luoghi più pericolosi, Enea si imbatté nella bella Elena, causa prima di tutta quella rovina e fu preso dal desiderio di ucciderla, ma venne fermato dalla madre Venere, che gli aveva detto invece di fuggire e di uscire dalla città insieme alla sua famiglia. Egli aveva quindi capito che i suoi parenti stavano correndo un grave pericolo ed era corso da loro. Enea racconta quindi la sua fuga con il figlio Iulo e il vecchio padre Anchise caricato sulle proprie spalle, mentre sua moglie Creusa non era riuscita a rimanere con loro ed era perita nella catastrofe generale: apparve come ombra a Enea, raccomandandogli di vigilare sempre sul loro figlio.



LIBRO III:

Enea racconta come, dopo aver radunato molti altri sopravvissuti (troiani e loro alleati) avesse costruito una flotta di navi: con queste era approdato in varie zone del Mediterraneo, tra le quali il Chersoneso Tracico e l'isola di Delo. Durante la prima tappa è significativo l'incontro con "l'anima insepolta" di Polidoro (il figlio di Priamo e di Ecuba), fatto uccidere dall'avido Polimestore, il quale voleva impossessarsi delle sue ricchezze: Enea ordinò ai suoi compagni di provvedere alla tumulazione per il principe troiano, permettendogli così di poter accedere finalmente all'Ade. Nella seconda, invece, Enea chiese all'oracolo di Apollo quale fosse la nuova terra dove avrebbe dovuto portare i superstiti Troiani. Apollo rispose: "Cercate l'antica madre; qui la stirpe d'Enea dominerà su tutte le terre e su tutti i discendenti". Anchise, il padre di Enea, credette che la terra d'origine dei Troiani fosse l'isola di Creta da dove sarebbe partito il capostipite Teucro. Perciò Enea col padre e i Troiani si reca a Creta; ma qui gli dèi Penati di Troia apparvero in sogno all'eroe spiegandogli che l'"antica madre" non era Creta, ma la (misteriosa) città di Corythus in Italia (variamente identificata con diverse città etrusche; l'identificazione con Cortona risale a Silio Italico): "lì nacque Dardano da cui deriva la nostra stirpe". Enea approdò poi nelle isole Strofadi dove venne perseguitato dalle Arpie che le abitavano. Qui l'Arpia Celeno gli profetizzò che sarebbe arrivato in Italia ma per la fame avrebbe dovuto mangiare anche le "mense". Un altro luogo dove poi s'era recato Enea era stato Butroto nell'Epiro (nell'odierna Albania), una città costruita a somiglianza di Troia. Qui aveva incontrato Andromaca, moglie di Ettore, che aveva ancora una volta pianto con lui per aver perduto il suo eroico marito e il suo figlio adorato, Astianatte. Enea incontrò anche il nuovo sposo della donna, Eleno figlio di Priamo, dotato del dono della profezia. Per suo tramite, Enea ebbe conferma che doveva recarsi in Italia. Eleno gli consigliò anche di recarsi a Cuma dalla famosa Sibilla. Enea aveva così lasciato Butroto rimettendosi in mare. Superate le insidiose Scilla e Cariddi e sbarcato con la flotta in Sicilia, scampò con i suoi uomini ad un attacco del ciclope Polifemo, salvando anche Achemenide, un superstite compagno di Ulisse. Ripreso il mare, nel corso della navigazione, Enea e i suoi giunsero a Drepano (l'odierna Trapani). Qui morì Anchise, il padre di Enea, stremato da tanti viaggi. Stavano dirigendosi verso il Lazio quando Giunone fece scatenare la tempesta che li avrebbe poi portati a Cartagine.



LIBRO IV:

Didone, regina di Cartagine, si rivolge alla sorella Anna, ammettendo i sentimenti per Enea, che ha riacceso l'antica fiamma d'amore, il solo per cui violerebbe la promessa di fedeltà eterna fatta sulla tomba del marito Sicheo. Anna riesce a persuaderla: la sorella è infatti sola e ancora giovane, non ha prole ed ha troppi nemici intorno. Didone allora immola una giovenca al tempio e riconduce Enea nelle mura. È notte. Giunone allora propone a Venere di combinare tra i due giovani il matrimonio. Venere, che intuisce il disegno di sviare Enea dall'Italia, accetta, pur facendo presente a Giunone la probabile avversità del Fato. L'indomani stesso, Didone ed Enea partono a caccia ma una tempesta li sconvolge: si rifugiano così in una spelonca, consacrando il rito imeneo. La Fama, mostro alato, avverte del connubio Iarba, pretendente respinto di Didone e re dei Getuli, che invoca Giove. Il padre degli dei invia il suo messaggero Mercurio a ricordare a Enea la fama e la gloria che attendono la sua discendenza. Enea allora chiama i suoi compagni, arma la flotta e si appresta a partire, pensando al modo più agevole di comunicare la decisione a Didone. Ma la regina, già informata dalla Fama, corre infuriata da Enea, biasimandolo di aver cercato di ingannarla e ricordandogli del loro amore e della benevolenza con cui l'aveva accolto, rinfacciandogli poi di non avere neppure coronato il loro sentimento con un figlio. Enea, pur riconoscendole i meriti, spiega che non può rimanere, perché è obbligato e continuamente sollecitato dagli dei e dall'ombra del defunto padre Anchise a cercare l'Italia. Ritornato alla flotta, rimane impassibile alla rinnovata richiesta di trattenersi mossa da Anna e alle maledizioni di Didone, che è perseguitata dal dolore con continue visioni maligne. Riferita la decisione di dedicarsi alle arti magiche per alleviare tante pene, la regina ordina quindi alla sorella di mettere al rogo tutti i ricordi e le armi del naufrago nella sua casa e invoca gli dei. Così, nella notte, mentre la regina escogita il modo e il momento del suicidio per porre fine a tanti affanni, Enea, avvertito in sonno, fugge immediatamente da quella terra. All'aurora, con la vista del porto vuoto, Didone invoca gli dei contro Enea, maledicendolo e augurandogli sventure, persecuzioni e guerra eterna tra i loro popoli. Giunta sulla pira funeraria, si trafigge con la spada di Enea, mentre le ancelle e la sorella invocano disperate il suo nome. Giunone poi invia Iride a sciogliere la regina dal suo corpo e a recidere il capello biondo della sua vita. Voltandosi indietro dal ponte della sua nave, Enea vede il fumo della pira di Didone e ne comprende chiaramente il significato: tuttavia il richiamo del destino è più forte e la flotta troiana fa vela verso l'Italia.



LIBRO V:

Enea con le navi tiene deciso la rotta, ma il cielo è pieno di enormi nubi minacciose, che danno presagio di un oscuro temporale. Palinuro, il timoniere della nave di Enea, è spaventato e teme che la flotta non riesca ad arrivare in Italia. Accorgendosi che la tempesta sta portando le navi verso le coste sicule, Enea decide di approdarvi. I troiani sbarcano presso Erice dove il re Aceste lietamente li accoglie e offre il suo aiuto. L'indomani, Enea parla ai compagni per informarli della commemorazione per l'anno trascorso dalla morte del padre Anchise, trovandosi inoltre vicini alle sue ceneri e ossa. Egli vuole celebrare l'onore, invocare i venti e gli onori nei tempi a lui dedicati con un banchetto ai Penati e con i giochi funebri, quali corsa di navi, a piedi, lancio del giavellotto e con frecce, mettendo in palio splendidi premi. Dopo aver chiesto due capi di buoi per ogni nave, cosparge le sue tempie con mirto sacro e raggiunge il tumulo. Glorifica quindi con due coppe di vino, due di latte e con fiori purpurei la terra e si rivolge al padre, salutandolo e rammaricandosi di averlo perso prima di aver raggiunto l'Italia. Subito però, un enorme serpente appare strisciando, gustando le vivande disposte per il sacrificio. Stupito, immola due pecore, seguite dalle offerte dei suoi compagni. Arrivata l'aurora, tutti si apprestano a gareggiare. Prima dell'inizio, Enea pone al centro dell'arena, in vista, i doni: tripodi, corone, palme, armi, vesti purpuree, talenti d'oro e d'argento. La tromba suona e si dispongono per la prima gara, una regata, quattro navi: Pristi di Mnesteo, Chimera del giovane Gia, Centauro di Sergesto e Scilla di Cloanto. Enea pone allora sullo scoglio dirimpetto alla riva una verde meta di elce frondoso. Ricevuto il segnale, partono. Se dapprima sono tutti a pari merito, Gia supera e guadagna la prima posizione, seguito da Cloanto. Menete, il timoniere della Chimera, raggiunta la roccia, non riesce a virare velocemente, scatenando la furia del comandante che getta il compagno maldestro in mare, tra le risate dei Teucri, per essere poi superato dalle altre navi. Ma il Centauro di Sergesto, intento a sorpassare la nave di Mnesteo, si incastra in uno scoglio. La Pristi ora gode quindi del secondo posto, quasi vicino al primo della Scilla. Il furbo Cloanto, accorgendosi dell'abilità dell'avversario, fa un voto con promessa di sacrificio di un toro in caso di trionfo. Gli dei spingono così vento propizio e la nave giunge vittoriosa al traguardo. Radunati tutti i comandanti Enea consegna allora al vincitore porpora con fregi, al secondo una pesante corazza intrecciata d'oro e al terzo due catini bronzei e due coppe d'argento. Solo più tardi giunge Sergesto con la nave danneggiata e, per il coraggio dimostrato, si aggiudica Foloe, una schiava con i suoi due figli gemelli. Enea raduna allora Teucri e Sicani per la gara di corsa su una piana erbosa. Vi partecipano i due giovani troiani Eurialo e Niso, amici inseparabili, il principe dei Teucri Diore, e i Sicani Salio (un giovane di origine acarnana), Patrone, Elimo e Panope. Rassicurandoli dei premi sicuri per tutti di due frecce, del ferro e un bipenne, espone quelli per i tre migliori: un cavallo per il primo, faretra e frecce al secondo e al terzo un elmo argolico. Niso si porta subito al comando, inseguito da Salio, Eurialo, Elimo, Diore. Ma, quasi alla fine, Niso scivola sul sangue dei giovenchi immolati e, per impedire la vittoria a Salio, si rialza proprio davanti a lui, che scivola a sua volta. Eurialo, Elimo e Diore ritirano i premi, che però vengono anche concessi ai due atleti non classificati: per Niso uno scudo, a Salio un'enorme pelle di leone. Nella disciplina successiva si battono i pugili: i premi consistono in un giovenco ornato d'oro al vincitore, e al vinto spada e elmo. Subito si propone il maturo troiano Darete, che in passato aveva atterrato immediatamente Bute, re dei Bebrici. All'inizio nessuno vuole sfidare il possente Darete, che superbo pretende subito la vittoria a tavolino. Un compagno di Aceste, Entello, allora, benché più vecchio di Darete, butta al centro dell'arena due cesti colmi d'armi di Erix, l'invincibile fratello di Enea, e offre al troiano una sfida ad armi pari, che naturalmente viene accettata. Entello passa dalla difesa all'attacco e gli infligge una lezione durissima, dedicando il duello vittorioso alla memoria di Erice. Inizia quindi la gara con l'arco, a cui partecipano Ippocoonte (fratello di Niso), Mnesteo, Euritione e Aceste. La gara consiste nel centrare una colomba volante posta sulla sommità dell'albero maestro della nave di Sergesto. Se Ippocoonte fallisce completamente, Mnesteo colpisce il filo di lino a cui il volatile è appeso, dando modo a Euritione di trafiggerlo in pieno. Aceste, già perdente, lancia comunque il dardo: questo brucia al contatto con la canna, per poi tracciare una via con le fiamme e sparire nel vento. Attoniti, tutti accolgono il segno come un presagio favorevole ed Enea cinge Aceste d'alloro, invitando poi il servo Epitide a chiamare Iulo per la parata dei fanciulli, guidata da Ascanio su un cavallo regalatogli da Didone, e dal suo migliore amico Ati, avo di Ottaviano. Giunone manda Iride a spirare venti sulla flotta di Enea. Scesa veloce sulla terra, si trasforma in Beroe e comunica alle mogli dei Troiani di erigere le mura proprio nella città, essendo stata avvertita della volontà divina dall'immagine di Cassandra, in sogno. Le invita inoltre a bruciare le navi e, afferrato un tizzone, lo scaglia. Ma Pirgo, la vecchia nutrice dei figli di Priamo, capisce che non si tratta di Beroe. La dea subito si dissolve levandosi in alto e le altre donne, già dubbiose, interpretando questo come un segno divino, iniziano a dar fuoco alla flotta. Vulcano, dio del fuoco, infuria: Eumelo messaggero riferisce del misfatto alla tomba di Anchise. Ascanio è avvisato per primo e raggiunge il campo delle donne, rimproverandole fortemente. Enea e i Teucri sopraggiungono altrettanto velocemente, ma le troiane per timore fuggono e, rinnegando Giunone, il loro gesto e la luce, si rifugiano in selve e grotte. Intanto le fiamme divampano e l'acqua versata per placarle non riesce a calmarle. Il figlio di Venere allora invoca Giove e subito una tempesta con violenti scrosci di pioggia pone fine alle fiamme e salva quindici imbarcazioni su diciannove. Dopo questi avvenimenti Enea, ancora una volta dimentico dei Fati, cade nell'incerto se stabilirsi in Sicilia o cercare il Lazio. In quel momento Naute lo sprona a perseguire anche con la sofferenza il volere del Fato e gli consiglia di affidare a quella città, in seguito Acesta, la sorte dei compagni in soprannumero, in prevalenza donne e vecchi stanchi delle peregrinazioni. Si viene comunque a creare una compensazione con alcuni sudditi di Aceste (tra cui Salio) che decidono di aggregarsi ad Enea. Sempre più pensieroso, Enea vede nella notte la figura di Anchise mandato da Giove che lo invita a sottomettersi al destino: gli ordina di recarsi, prima che in Italia, alle sedi infere di Dite, nel profondo Averno, nell'Elisio, con l'aiuto di una sibilla. Avvertiti i compagni, Enea circoscrive con un aratro la città, dove regnerà gente di stirpe troiana e dove Aceste porrà senato e leggi. Fondano anche un tempio nei pressi di un bosco, istituendo un sacerdozio in onore di Venere. Dopo aver banchettato nove giorni, attendono che i venti siano favorevoli e, prima di partire, immolano tre vitelli a Erice, un agnello a Tempeste e sciolgono gli ormeggi. Con la tristezza e il conforto della città fondata, salpano, e gettano come nuovo rito i visceri in mare. Venere, preoccupata, si rivolge a Nettuno, riferendogli dell'implacabile ira di Giunone, che tanto assilla suo figlio nonostante le molteplici vendette già attuate e affidandogli la salvezza delle navi troiane sino al Tevere. Il dio l'asseconda, preannunciandole la morte di uno solo tra i compagni di Enea. Venere si rallegra. Giunta notte, mentre i marinai si apprestano a dormire, il dio Sonno tenta Palinuro, che dapprima resiste ma poi, scosso e insonnolito, cade in mare. Invano chiama i compagni, mentre la nave continua a viaggiare per mare. Avvicinatosi agli scogli delle sirene, Enea nota con suo dispiacere l'assenza del nocchiero, prende il controllo dell'imbarcazione e spera che il compagno approdi un giorno su qualche spiaggia ignota, timoniere troppo fiducioso nel cielo e nel mare.



LIBRO VI:

Enea e i suoi compagni sbarcano a Cuma, in Campania, dove l'eroe, memore dei consigli di Eleno, si reca nel tempio di Apollo. La somma sacerdotessa di Apollo, la Sibilla Deifobe, figlia di Glauco, invasata dal dio durante il vaticinio, gli rivela che riuscirà ad arrivare nel Lazio, ma per ottenere la nuova patria dovrà affrontare odi e guerre, essendo inviso a Giunone: ella profetizza anche la comparsa di un nuovo Achille (che si rivelerà poi Turno). Su sua richiesta, la Sibilla guida Enea nel regno del dio Ade, ovvero l'Aldilà secondo la religione greca e romana. Prima di entrare nell'Ade vero e proprio Enea e la Sibilla devono passare su una delle due rive del fiume Acheronte, attraversando la zona dove vagano senza pace tutte le anime dei morti rimasti insepolti, e qui incontrano Palinuro, che narra del suo assassinio e del suo corpo lasciato insepolto dai Lucani. Supplica poi Enea di cercare i suoi resti o di aiutarlo ad attraversare il fiume: la Sibilla gli dice che è inutile sperare di mutare i fati divini con la preghiera; poi, per mitigare l'amarezza del pilota, gli rivela che presto avrà comunque un suo tumulo sepolcrale (che darà pace alle sue ossa e consentirà finalmente alla sua ombra di varcare il fiume infernale). Caronte, lo psicopompo dell'Ade, ostacola il loro ingresso a bordo della sua barca, sostenendo che i vivi finora traghettati sono stati per lui grave fonte di problemi. Quando però gli mostrano il ramo d'oro, chiave degli inferi che portano con loro, acconsente a trasportarli. Dopo aver superato l'ostacolo di Cerbero, Enea e la sacerdotessa incontrano prima le anime di molti troiani caduti in guerra, poi quelle dei suicidi per amore (nei campi del pianto, lugentes campi): tra queste v'è anche Didone, che reagisce gelidamente al passaggio di Enea, il quale scoppia in un pianto disperato. Giunti alla diramazione tra la via per il Tartaro e quella per i Campi Elisi, incontrano l'ombra del poeta Museo, che porta Enea da Anchise: Enea tenta invano di abbracciare il padre per tre volte. Anchise spiega dunque ad Enea la dottrina di cicli e rinascite che sostiene l'universo, e gli mostra le ombre dei grandi uomini che rinasceranno nella città che Enea stesso con la propria discendenza contribuirà a fondare, ovvero i grandi personaggi di Roma, come Catone, o Fabio Massimo: molti popoli - afferma Anchise in un noto passo - otterranno gloria nelle belle arti, nella scienza o nel foro, ma i Romani governeranno il mondo con la sapienza delle leggi, perdonando i vinti e annientando solo chi si opporrà. Dopo che Anchise ha profetizzato la prematura morte del nipote di Augusto, Marcello, Enea e la Sibilla risalgono nel mondo dei vivi, passando per la porta dei sogni.



LIBRO VII:

I troiani salpano da Cuma e giungono in un porto della Campania situato a Nord, qui muore Caieta, la nutrice di Enea, nell'Esperia. Stanchissimi e affamati (tanto da mangiare le mense, piatti di focaccia dura, proprio come avevano previsto le arpie), sbarcano alla foce del Tevere; Enea decide quindi di inviare un ambasciatore di nome Ilioneo al re del luogo, Latino. Questi accoglie con favore l'emissario di Enea, e gli dice di essere a conoscenza che Dardano, il capostipite dei Troiani, era nato nella città etrusca di Corito. Ilioneo risponde: "Da qui ebbe origine Dardano ... Qui Apollo ci spinge con ordini continui". In ogni caso Latino si mostra favorevole ad accogliere i Troiani perché suo padre, il dio italico Fauno, gli ha preannunciato che l'unione di uno straniero con sua figlia Lavinia avrebbe generato una stirpe eroica e gloriosa: per questo motivo il re aveva in precedenza rifiutato di concedere Lavinia in moglie al giovane re dei Rutuli, Turno, anche lui semidio (in quanto figlio della ninfa Venilia): la volontà degli dei si era manifestata anche attraverso prodigi. La piega che gli eventi stanno prendendo non piace a Giunone che con l'aiuto di Aletto, una delle Furie, rende geloso Turno e spinge la moglie del re, Amata, a fomentare l'odio verso gli stranieri nella popolazione locale. L'uccisione del giovane valletto latino Almone, colpito alla gola da una freccia durante una rissa fra Troiani e Italici provocata dalla Furia, scatena la guerra: Turno, nonostante il parere contrario di Latino, raduna un esercito da inviare contro i Troiani. Il suo alleato principale è Mezenzio, il re etrusco di Cere, cacciato dai sudditi per la sua crudeltà: vi sono poi, tra gli altri, Clauso, principe dei Sabini, alla testa di un corpo militare particolarmente imponente; i due semidei italici Ceculo e Messapo, figli rispettivamente di Vulcano e Nettuno; Ufente, capo degli Equi; Umbrone, condottiero dei Marsi e noto serparo; Virbio, giovane re di Aricia e nipote di Teseo; la vergine Camilla, regina dei Volsci.



LIBRO VIII:

Mentre guarda le truppe nemiche che si radunano sulla sponda opposta del Tevere, Enea cade addormentato e in sogno gli appare il dio del fiume Tiberino che, dopo avergli annunciato che lì suo figlio Ascanio fonderà una città di nome Alba, gli suggerisce di allearsi con Evandro, principe di una cittadina del Palatino. Il giorno successivo Enea risale il fiume ed entra nella città. Qui il figlio di Evandro, Pallante, lo riceve benevolmente. Enea, parlando al re, gli ricorda il comune antenato dei loro due popoli Atlante, e gli chiede aiuto. Evandro risponde che Tarconte, capo di tutti gli Etruschi, ha riunito i reggitori delle varie città, coi loro eserciti, per condurre una guerra proprio contro Turno e Mezenzio, ma affiderebbe volentieri il comando delle operazioni a Enea. Il capo troiano accetta e si dirige immediatamente verso "le spiagge del re etrusco"; Tarconte lo riceve nel proprio "campo" federale che si trova presso il bosco del dio Silvano. In quei pressi Venere consegna a Enea armi divine e soprattutto uno scudo opera di Vulcano, su cui sono rappresentate scene della futura storia di Roma, dalla nascita di Romolo e Remo al trionfo di Augusto dopo la vittoria di Azio.



LIBRO IX:

Mentre Enea si trova in Etruria, presso Tarconte, la dea Iride va ad avvisare Turno che "Enea è giunto fino alla lontana città di Corito (Tarquinia) e sta assumendo il comando della banda degli agresti Etruschi confederati". Turno allora, approfittando dell'assenza di Enea, sferra un assalto contro l'accampamento troiano, ma i Troiani riescono a resistere. Turno vuole bruciare le loro navi, ma grande è il suo stupore quando vede emergere, nel posto dove esse si trovavano, una moltitudine di Ninfe. Capisce allora che non è il momento di attaccare i Troiani, perché significherebbe inimicarsi gli dei. Dà quindi ordine di porre assedio al campo troiano a quattordici giovani condottieri del suo esercito (ciascuno dei quali è alla testa di un contingente composto da altri cento giovani) e agli uomini di Messapo. Nella stessa notte, gli inseparabili amici Eurialo e Niso si propongono di raggiungere Enea attraversando le linee nemiche. Entrano nel campo dei Rutuli, che trovano tutti addormentati, e decidono di farne strage. A iniziarla è Niso che armato di spada colpisce un alleato molto caro a Turno, ovvero il giovane re e augure Ramnete, sorpreso a russare un sonno particolarmente affannoso fra i tappeti ammucchiati a mo' di pagliericcio, e tre suoi servi, tutti adolescenti; le vittime successive sono lo scudiero e l'auriga di Remo, e il condottiero stesso, decapitato di netto da Niso che lascia il busto sul letto facendone colare tutto il sangue; e appresso al signore, il troiano recide la testa anche ad alcuni guerrieri del suo gruppo, tra cui l'insigne giovinetto Serrano, disteso al suolo per l'effetto soporifero dell'abbondante gozzoviglia alla quale si era dato dopo aver allegramente giocato a dadi. La strage ai danni degli italici viene proseguita da Eurialo, le cui vittime sono uomini di basso lignaggio. Uno di essi, Reto, svegliatosi improvvisamente, cerca di fuggire, venendo però anch'egli ucciso da Eurialo. Usciti dall'accampamento dei Rutuli, Eurialo e Niso vengono intercettati da un gruppo di cavalieri italici guidati da Volcente e costretti a nascondersi: Volcente cattura Eurialo e lo uccide, sicché Niso viene allo scoperto per vendicare l'amico e si scaglia contro il suo assassino, riuscendo a ucciderlo, ma muore subito dopo, trafitto dalle armi degli uomini di Volcente. Turno, infuriato per l'incursione compiuta da Eurialo e Niso, attacca nuovamente il campo dei Troiani. Ascanio si rende autore del suo primo atto d'eroismo militare trafiggendo mortalmente Numano, il cognato di Turno. Questi furibondo distrugge la palizzata, uccidendo i due giganteschi fratelli Pandaro e Bizia. Il re rutulo entra quindi nel campo nemico e fa strage di troiani in fuga: solo l'eroico Linceo cerca di assalire Turno con la spada snudata ma, prevenutolo, il Rutulo gli fa volare via di spada la testa con l'elmo mandando a giacere il busto a terra; rimbrottati dai loro capi i Troiani assalgono Turno che viene circondato dalle lance ed è costretto a tuffarsi nel Tevere per mettersi in salvo (in seguito ritornerà dai suoi compagni trasportato dalla corrente).



LIBRO X:

Nel frattempo sull'Olimpo è in atto un duro scontro tra gli dei: Giove è irritato per lo scoppio della guerra, Giunone addossa la colpa ai Troiani e Venere implora Giove di non abbandonarli proprio mentre sono circondati da forze molto più numerose delle loro. Enea, intanto, ha assunto il comando della Lega Etrusca, e alla testa dell'esercito imbarcato sulla flotta federale, assieme a Tarconte, torna dal territorio etrusco alla foce del Tevere: egli è accompagnato anche dagli Arcadi di Pallante e da Cupavone e Cunaro coi loro Liguri. Quando lo vedono riapparire i Troiani, ancora assediati nel loro campo, riacquistano fiducia. Turno muove l'esercito italico contro il nemico ma Enea, forte dello scudo di Vulcano e della protezione di Venere, è di fatto inarrestabile. Egli si slancia contro i nemici dapprima con la spada, e con essa uccide il gigantesco e coraggioso Terone, per poi ferire mortalmente il giovane Lica. Subito dopo abbatte due fratelli armati di clava, Cisseo e Gia, il cui padre era originario della Grecia, e Faro, al quale scaglia la lancia che trapassa di netto la bocca. Si fa allora eroicamente avanti una coppia di guerrieri latini, Cidone e Clizio, legati da un rapporto omoerotico: Enea stende morto Clizio, il più giovane dei due, mentre Cidone viene salvato dall'intervento dei sette figli di Forco che si frappongono improvvisamente tra lui ed Enea, il quale è costretto a chiedere al fedele Acate le lance, che scaglia sui suoi assalitori uccidendone un paio, Meone e Alcanore; un terzo fratello, Numitore, ferisce Acate in maniera non grave. Enea e Acate si allontanano mentre i combattimenti riprendono più cruenti di prima: in campo italico si mettono in evidenza Clauso e Messapo. Pallante fa strage di alcuni giovani guerrieri, tra cui i due valorosi gemelli latini Laride e Timbro, figli di Dauco: con la spada decapita Timbro e recide la mano destra a Laride, abbandonandolo moribondo sul terreno. Poi uccide Aleso, l'antico auriga di Agamennone, stabilitosi in Italia dopo la guerra di Troia. Viene quindi affrontato da Turno in duello: sull'Olimpo Ercole, invocato dal giovane prima dello scontro, chiede a Giove se la sua vita possa essere risparmiata, ma il padre ricorda l'inevitabilità del fato: "Stat sua cuique dies, breve et inreparabile tempus/ Omnibus est vitae" ("A ciascuno è dato il suo giorno, il tempo della vita/ è breve e irreparabile per tutti". Turno uccide Pallante, spogliandolo poi del balteo. Enea, infuriato per la morte del suo amico e alleato, lo vendica scagliandosi sui nemici e facendone scempio: innanzitutto cattura vivi otto giovani per immolarli sulla pira che arderà Pallante; poi abbatte Mago ed altri guerrieri tra cui Ceculo (il semidio figlio di Vulcano), Umbrone, Anxure al quale tronca una mano, e pure un sacerdote di Apollo e di Diana, figlio di tale Emone. Quindi affronta il giovane etrusco Tarquito, schierato con Mezenzio e anch'egli semidio, e con la spada gli spicca via la testa dal busto, facendo infine rotolare i resti del nemico, grondanti di sangue, nella foce del Tevere. Le schiere italiche fuggono terrorizzate, ma Enea prosegue con la carneficina: cadono due fedelissimi di Turno, Anteo e Luca, poi Numa e anche Camerte, il biondo signore di Amyclae, nonché figlio di Volcente. Enea quindi uccide una coppia di fratelli che avevano osato sfidarlo dal carro insultandolo, Lucago e Ligeri, colpendo il primo all'inguine con la lancia scagliata e buttandolo giù dal carro, mentre all'altro apre il petto con la spada. I Rutuli sono così costretti ad allentare l'assedio al campo dei Troiani, che finalmente possono intervenire al fianco di Enea; belle prove vengono offerte da Salio, il giovane sicano di origini greche unitosi a Enea e ai suoi uomini, destinato però anche lui a soccombere (per mano dell'italico Nealce). Intanto Giunone, temendo per la sorte di Turno, è riuscita ad allontanare il re rutulo dal campo di battaglia. Enea può così affrontare il tiranno etrusco Mezenzio, che sta facendo a sua volta strage di Troiani, ferendolo con la lancia all'inguine; quindi si getta su Lauso, il figlio di Mezenzio accorso in sua difesa, e gli pianta la spada nel petto: toccato dal gesto eroico del giovane, non infierisce sul suo corpo ma lo fa adagiare sul suo stesso scudo restituendolo al padre. Mezenzio inveisce per la morte del figlio ed affronta, benché gravemente impedito, il troiano a duello. Enea uccide con un colpo di lancia il cavallo di Mezenzio e quindi il tiranno stesso, spogliandolo poi delle sue armi che appende nel campo di battaglia, come trofeo per Marte.



LIBRO XI:

Dopo le celebrazioni per la vittoria su Mezenzio, Enea riporta il corpo di Pallante nella sua città per le esequie, e il padre Evandro chiede che sia vendicato. Il re Latino chiede una tregua ai Troiani e si giunge ad un accordo in base al quale vengono decisi dodici giorni di sospensione delle ostilità, per consentire lo svolgimento dei riti funebri di tutti i caduti. Enea, che rispetta Latino memore del fatto che gli avesse offerto la mano della figlia, propone di porre fine alla guerra e di risolvere la questione con un duello tra lui e Turno. Il rutulo rifiuta però la proposta, e dunque il conflitto riprende. Tarconte assale il giovane tiburtino Venulo che viene ucciso dopo aver cercato disperatamente di resistere; in aiuto delle forze latine interviene la cavalleria dei Volsci guidata dalla guerriera Camilla. Nel corso dei combattimenti il giovane etrusco Arunte insidia la vergine che compie stragi, e, dopo averla vista inseguire il troiano Cloreo che attirava l'attenzione per le sue armi d'oro, scaglia l'asta e la coglie in pieno petto; Camilla muore e l'esercito italico è costretto a ritirarsi lasciando Enea padrone del campo.



LIBRO XII:

Vista la difficile situazione, Turno accetta la sfida lanciatagli da Enea, nonostante l'opposizione di Latino e della regina Amata. Giunone interviene nuovamente, convincendo Giuturna, la ninfa sorella di Turno, a radunare l'esercito e mandarlo all'attacco. Il duello è così rinviato e i due eroi si rituffano nei combattimenti. Enea viene ferito da un dardo vagante alla coscia, e Venere deve intervenire per ridargli vigore. Durante la sosta forzata di Enea i suoi luogotenenti riescono a controllare egregiamente la situazione, soprattutto Acate e Gia, che decapitano rispettivamente Epulone e Ufente: nella mischia muore poi l'augure italico Tolumnio, colui che aveva violato la tregua. La ferita di Enea viene curata, e il capo troiano può ritornare a combattere. Enea e Turno, alla guida dei rispettivi eserciti, fanno macello dei rispettivi nemici. Memorabili alcune uccisioni: il rutulo Sucrone, che Enea ferma colpendolo al fianco con la lancia per poi spezzargli con la spada le costole intere una volta caduto al suolo; i fratelli troiani Amico e Diore, uccisi da Turno e poi appesi, con le teste recise, al loro carro; il masso scagliato contro Murrano da Enea che lo catapulta giù dal cocchio e lo fa morire dilaniato dai suoi stessi cavalli che, dimenticatisi di lui, credevano si trattasse di un nemico caduto. Tra le vittime del re rutulo c'è anche Darete. Intanto Amata, credendo che Turno sia morto, si toglie la vita. Quando Turno vede che è la sorella ad aizzare i soldati a spezzare la tregua interviene, ordinando alle truppe di fermarsi. La mischia si scioglie e finalmente i due eroi si trovano faccia a faccia per il duello. Gli dei decidono di non intervenire ed anche Giunone è costretta a interrompere le sue trame. Enea, scagliata una lancia contro Turno, vince facilmente lo scontro ferendo il nemico: poi sguaina la spada affilata da entrambe le parti e con essa muove verso lo sconfitto, ma si arresta dopo che Turno lo implora di rendere il suo corpo privo di vita al padre Dauno ("Tu puoi usar la tua sorte. Ma se del misero padre un pensiero può ancora toccarti, ti prego [...], pietà della vecchiezza di Dauno e, sia pur corpo privo di vita, se questo ti piace, rendimi ai miei. Hai vinto [...]. Di più non voglia il tuo odio"). Quando però vede su di lui il "balteo", cinturone che Turno aveva strappato a Pallante dopo averlo ucciso, la pietà viene meno. Enea affonda la spada nel petto di Turno - che muore emettendo un rantolo atroce - e si riappacifica con gli Italici; i Troiani possono così finalmente stabilirsi nel Lazio e trascorrere la loro esistenza nella nuova terra conquistata.

Nessun commento:

Posta un commento

Archivio blog

Cerca nel blog